lunedì 10 maggio 2021

MITI . I CICLOPI

 I Ciclopi

Tutti quanti conosciamo questi grossi mostri con un occhio solo in mezzo alla fronte, soprattutto uno in particolare: Polifemo, il ciclope in cui si è imbattuto l'eroe Odisseo. Secondo Omero, i Ciclopi erano tutti figli di Poseidone ed erano creature, oltre che gigantesche e con una forza inimmaginabile, anche malvagie e rozze. Si occupavano principalmente della pastorizia e non avevano mai creato comunità tra di loro, facendo quindi una vita selvaggia e solitaria. Nell'Odissea di Omero, erano localizzati in Sicilia e si conosce il nome di uno solo di loro, ovvero quello di Polifemo, il quale sarebbe poi stato accecato con l'inganno da Odisseo cosicché, quest'ultimo, riuscisse a fuggire dalla prigionia nella caverna del ciclope, insieme ai suoi compagni rimasti vivi. Una volta che Polifemo avrebbe poi scoperto la vera identità di questo misterioso "Nessuno", il ciclope avrebbe invocato suo padre Poseidone perché lo maledisse in eterno, cosa che in effetti è accaduta, poiché il viaggio di Odisseo sarebbe stato arduo e travagliato.

Non i tutte le versioni, però, vengono descritti così rozzi e malvagi:

Secondo Esiodo, infatti, i Ciclopi sarebbero stati i primi tra dei dell'universo, ovvero i Titani, nati dall'unione tra la Grande Madre Gaia e Urano Stellato, ma furono imprigionati nel Tartaro da quest'ultimo. Erano inoltre solo tre e i loro nomi erano Arge il Tuono, Sterope il Lampo e Bronte il Fulmine. Sarebbero stati poi liberati da Zeus e questi, per ringraziarlo, forgiarono per lui la folgore, per Poseidone il Tridente e per Ade l'Elmo che rende invisibili, dimostrandosi abilissimi costruttori. In seguito aiutarono gli stessi dei nella grande lotta contro i Titani, vinta dopo dieci anni dagli Olimpi. Una volta terminata la Guerra, i Ciclopi si misero al servizio di Efesto nella grande fucina del Monte Etna, forgiando innumerevoli  oggetti leggendari.

Secondo altri invece, i Ciclopi provenivano dalla Licia e si misero al servizio dei primi grandi sovrani Achei, come Preto e Perseo, costruendo innumerevoli fortificazioni per le più importanti città come Micene, Argo e Tirinto, nelle cui rovine possiamo tutt'oggi ammirare i resti del loro antico operato, come quelli che molti chiamano "Mura Ciclopiche" o l'antichissima e leggendaria Porta dei Leoni, che alla sola vista si può ancora immaginare Agamennone alla testa del suo esercito che esce da questo magnifico cancello per partire verso Troia.

dal web

~ Polifemo, di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, 1802 

 Ciclopi: tra mito e realtà

Il volto in pietra del ciclope PolifemoSebbene si abbiano diversi riferimenti anche di carattere storico, c'è da dire che la leggenda dei ciclopi appartiene alla sfera fantastico-letteraria piuttosto che a quella del racconto storico.


Ce ne parla anche Omero nella sua Odissea, poema epico che si colloca all'origine della letteratura greca. È evidente che il modulo espressivo adottato dal poeta greco richiami il racconto fiabesco, caratterizzato dall'indeterminatezza del luogo e del tempo. In seguito a una tempesta, Ulisse, il protagonista dell'Odissea, approda in una terra sconosciuta. Nel linguaggio poetico, la tempesta è un espediente che segna il passaggio dal mondo della realtà a quello della fiaba, e l'episodio di Polifemo s'inserisce in questo contesto.


Polifemo, il cui nome deriva dal greco antico Polùphemos, "colui che parla molto", oppure "molto conosciuto", è senza ombra di dubbio il ciclope più famoso. Figlio di Poseidone, il dio del mare, e della ninfa Toosa, è il protagonista del libro IX dell'Odissea.


Omero ci narra che Ulisse, durante il suo viaggio di ritorno in patria dalla guerra di Troia, sbarcò nella Terra dei Ciclopi, forse l'odierna Sicilia. La zona era abitata dai ciclopi, una razza di giganti da un unico occhio, dediti alla pastorizia. Spinto dalla sua proverbiale curiosità, Ulisse si inoltrò in queste terre sconosciute e misteriose e raggiunse la grotta di Polifemo.


«In disparte costui vivea da tutti,

E cose inique nella mente cruda

Covava: orrendo mostro, né sembiante

Punto alla stirpe, che di pan si nutre,

Ma più presto al cucuzzolo selvoso

D’una montagna smisurata, dove

Non gli s’alzi da presso altro cacume.»

(Omero, Odissea, libro IX, versi 238-244. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Polifemo cattura Ulisse e i suoi compagni, li fa prigionieri. Durante la prigionia nella sua grotta ne divora sei.

Ulisse allora escogita una trappola per fuggire. Anzitutto offre a Polifemo un vino dolcissimo. Il gigante gli chiede il suo nome e Ulisse dice di chiamarsi Nessuno. Quindi, prima di cadere in un sonno profondo, il ciclope per ringraziarlo del vino gli promette che verrà divorato per ultimo.

«Ed ei con fiero cor: L’ultimo, ch’io

Divorerò, sarà Nessuno. Questo

Riceverai da me dono ospitale.

Disse, e dié indietro, e rovescion cascò.»

(Omero, Odissea, libro IX, versi 470-473. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Ulisse, mentre la creatura dorme, l'acceca con un palo rovente. Polifemo si sveglia di soprassalto, urlando dal dolore

Gli altri ciclopi corrono alla sua grotta e gli chiedono cosa sia successo.

«Per quale offesa, o Polifemo, tanto

Gridastu mai? Perché così ci turbi

La balsamica notte, e i dolci sonni?

Fúrati alcun la greggia? o uccider forse

Con inganno ti vuole, o a forza aperta?»

(Omero, Odissea, libro IX, versi 519-523. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Polifemo, dal profondo della grotta, non può che urlare:

«Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno, Non già con la virtude.»

(Omero, Odissea, libro IX, versi 525-526. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Udndo quelle parole, i ciclopi credettero che il male di cui Polifemo soffrisse gli fosse stato mandato direttamente da Zeus. Loro non potevano far nulla. Che rivolgesse quindi le sue preghiere al padre, il divino Poseidone. E se ne tornarono a dormire.

La mattina dopo, Polifemo deve far uscire dalla grotta il suo gregge perché possa pascolare e sta bene attento a che gli uomini non sfruttino l'occasione per fuggire. Allora, Ulisse ordisce con i suoi compagni un abile stratagemma. Ognuno di loro si aggrappa alla lana del ventre di una pecora. Polifemo toccando solamente il dorso, fa uscire gli animali liberando così gli uomini.

«Il padron, cui ferian continue doglie,

D’ogni montone, che diritto stava,

Palpava il tergo; e non s’avvide il folle,

Che dalle pance del velluto gregge

Pendean gli uomini avvinti.»

(Omero, Odissea, libro IX, versi 566-570. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Ultimo a uscire fu Ulisse, aggrappato a uno splendido ariete, la bestia preferita da Polifemo. Il gigante afferra l'animale e gli rivolge parole toccanti. Perché lui che è sempre stato il primo a raggiungere i pascoli, il primo a correre verso i ruscelli, ora è l'ultimo a uscire?

«Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse

L’occhio del tuo signor? l’occhio, che un tristo

Mortal mi svelse co’ suoi rei compagni,

Poiché doma col vin m’ebbe la mente,

Nessuno, ch’io non credo in salvo ancora.»

(Omero, Odissea, libro IX, versi 583-587. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Sono parole che non si addicono alla natura selvaggia e crudele di Polifemo. Rivelano un'esistenza triste e solitaria, dove le sue bestie sono l'unica cosa che ha, e anche i suoi unici amici.

È lui stesso a spingere l'ariete verso il pascolo e a ridare a Ulisse la libertà.

creatura-leggendaria.





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