giovedì 15 settembre 2022

tracce di letteratura - 15 09 2022



😥😥😥

I due autisti ( da La Boutique del Mistero - D.Buzzati)

"A distanza di anni, ancora mi domando che cosa si dicevano i due autisti del furgone scuro mentre trasportavano la mia mamma morta al cimitero lontano. 

Era un viaggio lungo, di oltre trecento chilometri, e benché l'autostrada fosse sgombra, il nefasto carro procedeva lentamente. Noi figli seguivamo in macchina ad un centinaio di metri e il tachimetro o scillava sui sessanta-settantacinque, forse era perché quei furgoni sono costruiti per andare lentamente ma io penso che facessero così perché era la regola, quasi che la velocità fosse una irriverenza ai morti, che assurdità, io avrei invece giurato che a mia mamma sarebbe piaciuto correre via a centoventi all'ora, la velocità se non altro l'avrebbe illusa che era il solito spensierato viaggio estivo per raggiungere la nostra casa di Belluno. 

Era una stupenda giornata di giugno, il primo trionfo dell'estate, le campagne intorno bellissime, che lei aveva attraversato chissà quante centinaia di volte ma adesso non le poteva più vedere. E il grande sole era ormai alto e sull'autostrada, laggiù in fondo, si formavano gli acquei miraggi per cui le macchine in lontananza sembravano sospese a mezz'aria. 

Il tachimetro oscillava sui settanta-settantacinque , il furgone dinanzi a noi sembrava immobile e di fianco guizzavano lanciatissime le macchine libere e felici, uomini e donne tutti vivi, anche stupende ragazze a fianco di giovanotti, in fuori-serie aperte, coi capelli sventolanti al vento della corsa. Anche i camion ci sorpassavano, anche quelli con rimorchio, tanto procedeva lentamente il cimiteriale furgone e io pensavo com'è stupido questo, sarebbe stata una cosa bella e gentile per mia mamma morta trasportarla al lontano cimitero sopra una meravigliosa supersport rossa fiammante, premendo l'acceleratore al massimo, dopo tutto sarebbe stato concederle un piccolo supplemento della autentica vita mentre quel lento scarrucolare sul filo dell'asfalto assomigliava troppo al funerale. 

Perciò io mi chiedevo di che cosa stessero parlando i due autisti; ce n'era uno che sarà stato alto un metro e ottantacinque, un pezzo di marcantonio dalla faccia bonaria, ma anche l'altro era robusto, li avevo intravisti al momento della partenza, non erano assolutamente dei tipi adatti a questo genere di cose, un camion carico di lamiere gli sarebbe stato assai più confacente.

Mi domandavo di che cosa stessero parlando perché quello era l'ultimo discorso umano, le ultime parole della vita che mia mamma poteva udire. E loro due mica che fossero carogne, ma in un viaggio così lungo e monotono certo sentivano il bisogno di discorrere; il fatto che alle loro spalle, a distanza di pochi centimetri, giacesse mia mamma, non aveva per loro la minima importanza, si capisce, a queste faccende erano abituati altrimenti non avrebbero fatto quel mestiere. 

Erano le ultime parole umane che mia mamma poteva udire perché subito dopo l'arrivo sarebbe cominciata la funzione nella chiesa del cimitero e da quel momento i suoni e le parole non sarebbero appartenuti più alla vita, erano i suoni e le parole dell'aldilà che cominciavano. 

Di che cosa parlavano? Del caldo? Del tempo che avrebbero impiegato nel ritorno? Delle loro famiglie? Delle squadre di calcio? Si indicavano l'un l'altro le migliori trattorie scaglionate lungo il percorso con la rabbia di non potersi fermare? Discutevano di automobili con la competenza di uomini del mestiere? Anche gli autisti dei furgoni funebri appartengono, in fondo, al mondo del motore e i motori li appassionano. O si confidavano certe loro avventure d'amore? Ti ricordi quella biondona di quel bar vicino alla colonnetta dove noi ci si ferma sempre a far benzina? Proprio quella. Ma va', racconta allora, io non ci credo. Che mi cascasse la lingua se... Oppure si raccontavano addirittura barzellette sconce? Non è forse uso consueto questo, fra due uomini che per ore e ore viaggiano da soli in automobile? Perché quei due certamente erano convinti di essere soli; la cosa chiusa nel furgone alle loro spalle non esisteva neppure, se ne erano completamente dimenticati. 

E mia mamma udiva i loro scherzi e le loro sghignazzate? Sì, certamente li udiva e il suo tribolato cuore si stringeva sempre di più, non che potesse disprezzare quei due uomini, ma era una cosa brutta che nel mondo, da lei tanto amato, le ultime voci fossero quelle e non le voci dei figli. 

Allora, mi ricordo - eravamo quasi a Vicenza e il caldo del mezzodì incombeva facendo tremolare i contorni delle cose, pensai quanto poco io avessi tenuto compagnia alla mamma negli ultimi tempi. E sentii quella punta dolorosa nel mezzo del petto che abitualmente si chiama rimorso. 

In quel preciso momento - chissà come, fino allora non era scattata la molla di questo miserabile ricordo - cominciò a perseguitarmi l'eco della sua voce, quando al mattino entravo in camera sua prima di andare al giornale: «Come va?» «Stanotte ho dormito» rispondeva (sfido, a forza di iniezioni). «Io vado al giornale.» «Ciao.» 

Facevo due tre passi nel corridoio e mi raggiungeva la temuta voce: 

«Dino.» Tornavo indietro. «Ci sei a colazione?» «Sì.» «E a pranzo?»

 "E a pranzo?" Dio mio, quanto innocente e grande e nello stesso tempo piccolo desiderio c'era nella domanda. Non chiedeva, non pretendeva, domandava soltanto un'informazione. 

Ma io avevo appuntamenti cretini, avevo ragazze che non mi volevano bene e in fondo se ne fregavano altamente di me, e l'idea di tornare alle otto e mezzo nella casa triste, avvelenata dalla vecchiaia e dalla malattia, già contaminata dalla morte, mi repelleva addirittura, perché non si deve aver il coraggio di confessare queste orribili cose quando sono vere? «Non so» allora rispondevo «telefonerò.» E io sapevo che avrei telefonato di no. E lei subito capiva che io avrei telefonato di no e nel suo "Ciao" c'era uno sconforto grandissimo. Ma io ero il figlio, egoista come sanno esserlo soltanto i figli. 

Non avevo rimorso, sul momento, non avevo pentimenti e scrupoli. Telefonerò dicevo. E lei capiva benissimo che a pranzo non sarei venuto. 

Vecchia, ammalata, distrutta anzi, consapevole che la fine stava precipitando su di lei, la mamma si sarebbe accontentata, per essere un poco meno triste, che io fossi venuto a pranzo a casa. Magari per non dire una parola, ingrugnato magari per le mie maledette faccende di ogni genere. Ma lei, dal letto, perché non poteva muoversi dal letto, avrebbe saputo che io ero di là in tinello e si sarebbe consolata. 

Io invece no. Io andavo in giro per Milano ridendo e scherzando con gli amici, idiota, delinquente che ero, mentre il costrutto della mia stessa vita, l'unico mio vero sostegno, l'unica creatura capace di comprendermi e di amarmi, l'unico cuore capace di sanguinare per me (e non e avrei trovati altri mai, fossi campato anche trecento anni) stava morendo. Le sarebbero bastate due parole prima di pranzo, io seduto sul piccolo divano e lei distesa in letto, qualche informazione sulla mia vita e sul mio lavoro. E poi, dopo pranzo, mi avrebbe lasciato andare volentieri dove diavolo volevo, non le sarebbe dispiaciuto, anzi, era lieta se avevo occasione di svagarmi. Ma prima di uscire nella notte sarei rientrato nella sua camera per un ultimo saluto. «Hai già fatta l'iniezione?» «Sì, questa notte spero proprio di dormire.» 

Così poco chiedeva. E io neanche questo, per il mio schifoso egoismo. 

Perché io ero il figlio e nel mio egoismo di figlio mi rifiutavo di capire quanto bene le volessi. E adesso, come ultima porzione di mondo, ecco le chiacchiere, le barzellette e le risate dei due autisti sconosciuti. Ecco l'ultimo dono che le concedeva la vita. 

Ma adesso è tardi, spaventosamente tardi. La pietra da quasi due anni è stata calata a chiudere la piccola cripta sotterranea, dove nel buio, una su l'altra, stanno le bare dei genitori, dei nonni, dei bisnonni. La terra ha già riempito gli interstizi, qualche minuscola erbetta tenta di spuntare qua e là. E i fiori, collocati qualche mese fa nella vasca di rame, sono ormai irriconoscibili. No, quei giorni che lei era malatae sapeva di morire non possono più tornare indietro. Lei tace, non mi rimprovera, probabilmente mi ha anche perdonato, perché sono suo figlio. Anzi, mi ha perdonato di sicuro. Eppure, quando ci penso, non so darmi pace. 

Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per cancellarlo. Fra miliardi di secoli, la sofferenza e la solitudine di mia mamma, provocate da me, esisteranno ancora. E io non posso rimediare. Espiare soltanto, semmai, sperando che lei mi veda.

Ma lei non mi vede. Lei è morta e distrutta, non sopravvive, o meglio non restano più che i residui del suo corpo orrendamente umiliato dagli anni, dal male, dalla decomposizione e dal tempo. 

Niente? Proprio niente rimane. Di mia mamma non esiste più nulla? 

Chissà. Di quando in quando, specialmente nel pomeriggio, se mi trovo solo, provo una sensazione strana. Come se qualcosaentrasse in me che pochi istanti prima non c'era, come se mi abitasse un'essenza indefinibile, non mia eppure immensamente mia, e io non fossi più solo, e ogni mio gesto, ogni parola, avesse come testimone un misterioso spirito. Lei! Ma l'incantesimo dura poco, un'ora e mezzo, non di più. Poi la giornata ricomincia a macinarmi con le sue aride ruote."

           ( Dino Buzzati - I due autisti )

Nessun commento:

Posta un commento

lo sai come si chiama..? Maggio 2025