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tracce di storia Roma e il suo nome

 IL NOME SEGRETO DI ROMA


Era consuetudine comune nell’antichità non rivelare il vero nome della città: questo è stato il caso di Roma, il cui nome segreto, quando rivelato, fu pagato ad un costo altissimo, quello della vita. Fu il caso del tribuno della plebe Quinto Valerio Sorano che, in un periodo turbolento della storia della res publica romana, quello della guerra civile tra Caio Mario e Lucio Silla, fu condannato alla pena capitale per aver rivelato, nella sua opera “Epoptides” (“I misteri svelati”), il nome segreto di Roma (altre fonti sostengono che il vero motivo della sua esecuzione consistesse nella sua vicinanza politica a Mario), che avrebbe potuto essere nominato impropriamente dai nemici di Roma tramite il rituale dell’evocatio. Il racconto è di Servio Mario Onorato, grammatico e commentatore del IV secolo d.C.
Denique tribunus plebei quidam Valerius Soranus, ut ait Varro et multi alii, hoc nomen ausus enuntiare, ut quidam dicunt raptus a senatu et in crucem levatus est, ut alii, metu supplicii fugit et in Sicilia comprehensus a praetore praecepto senatus occisus est.
Finalmente un tribuno della plebe, Valerio Sorano, come dicono Varrone e molti altri, avendo osato pronunciare questo nome, come alcuni dicono fu trascinato via dal senato e crocifisso, come dicono altri, per paura della condanna fuggì e, catturato in Sicilia dal pretore, fu ucciso su ordine del senato.
L’evocatio era un rito per il quale si invocava (e-vocare significa “chiamare da un luogo”), pronunciandone il nome, il dio protettore di una città davanti alle mura di essa durante l’assedio. Conoscere il nome del dio equivaleva nell’idea ad impadronirsi dell’essenza della città assediata e a sottometterla, per poi, ultimato il rito magico, portare il numen a Roma. Il passo successivo sarebbe stata l’introduzione del suo culto nell’Urbe e l’innalzamento di un tempio in suo onore, a ringraziamento del suo sostegno. In tal modo i Romani avrebbero incrementato la loro forza militare, mentre il popolo sottomesso avrebbe perso la sua libertà, poiché, in assenza di numen protettore, non avrebbe mai più potuto riconquistare la potenza guerriera precedente.


Una famosa evocatio fu quella pronunciata da Furio Camillo nell’assedio della città di Veio, quando chiese al numen tutelare della città, Giunone Regina, di lasciarla per essere meglio onorato a Roma. L’evento è del 396, ma Veio era già sotto assedio da dieci inutili anni; il racconto è di Tito Livio. E’ appena il caso di ricordare che Giunone è divinità di origine etrusca, esattamente come Veio è una città etrusca, e che il culto di Giunone Regina era talmente diffuso che nel III secolo Livio Andronico, iniziatore, secondo la tradizione, della letteratura latina, scrisse un inno dal carattere formulare e rituale alla dea affinché proteggesse i Romani durante la II guerra punica. Inutile dire che i Romani sconfissero i Cartaginesi in una cruenta battaglia presso il fiume Metauro e che Livio Andronico fu innalzato ai più alti onori.
Altra evocatio famosa fu quella pronunciata dal console Scipione Emiliano durante l’assedio di Cartagine durante la terza guerra punica.
Che sia un dio o una dea, sotto la cui protezione sono posti il popolo e la città di Cartagine; e soprattutto tu, che hai intrapreso la difesa di questa città; io vi prego e imploro e supplico a voi chiedo che voi abbandoniate il popolo e la città di Cartagine, e lasciate i loro luoghi, templi, cose sacre e la città, e vi allontaniate da essi, e che ne ispiriate il popolo e la città con paura, terrore e perdita del ricordo, e che uscendo veniate a Roma, a me e ai miei, e che i nostri luoghi, templi, cose sacre e città siano per voi più accettabili e graditi, e che vi disponiate per me e per il popolo romano e per i miei soldati, e che noi possiamo saperlo e capirlo. Se così avrete fatto, io faccio voto che vi consacrerò templi e solennità.
(Macrobio, Saturnalia, Libro III, cap IX.6)
Macrobio si diffonde anche a parlare dell’evocatio, descrivendolo come rito dal potere irresistibile e dall’efficacia straordinaria. Il concetto parte da una riflessione su un passo dell’ “Eneide” virgiliana:
excessere omnes adytis arisque relictis
di quibus imperium hoc steterat.
Tutti gli dei per i quali questo impero si reggeva in piedi, abbandonati templi e altari , andarono via
Le parole, pronunciate da Enea nel II libro, erano intese a spingere i compagni a combattere, nonostante non ci fossero più speranze per Troia, i cui dei protettori erano fuggiti.
I Romani posero ogni attenzione a non diffondere il nome segreto della loro città; e, se alcuni autori dell’antichità formularono opinioni contrastanti, proponendo i nomi di Angerona, la dea che intima il silenzio, o di Giove, o ancora di Opi, dea arcaica dell’abbondanza, di volta in volta assimilata a Venere (come dispensatrice di vita, di Forza), a Cerere, Flora e Pomona, i letterati più dotti e avvertiti si posero l’interrogativo del vero nome di Roma, la cui rivelazione avrebbe comportato l’exauguratio, ovvero l’allontanamento della sacralità della città e la perdita della libertà per i suoi cittadini.
Così Plinio il Vecchio all’interno della sua opera monumentale, la “Naturalis Historia”, afferma:
“riti misteriosi proibiscono di pronunciare l’altro nome di Roma. Valerio Sorano che osò divulgarlo non tardò a pagarne la pena. Non è fuori proposito accennare qui ad una particolarità dell’antica religione prescritta per questo silenzio. La dea Angerona, alla quale si sacrifica nel giorno 21 dicembre, ha il simulacro con la bocca fasciata da una benda”.
E cita significativamente Angerona.
Il sacro timore della rivelazione, che si accompagna all’indicibilità, tratto inconfondibile delle dee arcaiche del silenzio (Tacita Muta e Angerona), è stato alla base anche della separazione all’interno del ricco pantheon romano tra dei consentes (i 12 , di origine etrusca, citati da Quinto Ennio nel suo poema “Annales”) e dei dal nome impronunciabile persino dai sacerdoti Salii, dediti al culto del dio Marte, i cosiddetti dei involuti (ignoti), di cui non si conoscevano nomi e numero.
Per comprendere meglio la questione, di difficile risoluzione ancora oggi, è opportuno fare riferimento alle leggende sulla fondazione di Roma, quelle relative a Romolo e Remo e all’allattamento da parte della lupa. Il nome “Roma” è ancora oggi dibattuto dal punto di vista etimologico: alcuni ritengono che il nome “Roma” derivi da ruo, antico nome del Tevere (che infatti scorreva impetuoso prima che i suoi argini fossero costruiti e il livello delle acque salisse) o dall’etrusco Rumon (secondo Servio l’antico nome del Tevere) e, sempre dall’etrusco, secondo Virgilio deriverebbe Tiberis (Thybris); altri propongono l’etrusco Ruma o Rumis (mammella), e lo collegano al colle Palatino, attorno al quale il primo nucleo cittadino nacque, poiché il Palatino è caratterizzato da due cime (le mammelle): il Germalus, che si affaccia sul foro Boario e sul Tevere, il Palatium, la vetta maggiore, e da uno spazio separatorio, l’intermontium. E’ appena il caso di ricordare che esiste nel pantheon latino la dea dei poppanti, Rumina, il cui tempio sorgeva ai piedi del colle vicino al famoso fico ruminalis– albero che tra l’altro secerne una sostanza lattiginosa- dove la lupa della leggenda allattò i gemelli e a cui si offriva in voto del latte o dove, secondo un’altra ipotesi, andavano le greggi a ruminare.
Numerosi d’altronde sono i vocaboli etruschi con radice RUM- che sembrano ricollegarsi al mondo romano: rumate/ rumax= romano, rumitrinethi=nello stato romano.
La leggenda poetica ci parla dell’arrivo dei troiani, capitanati dal pius Enea, nel Lazio governato da Latino: l’eroe, genero del re Priamo, era stato generato dal mortale Anchise e dalla dea Venere, dea dell’ Amore (Amor) inteso come principio vitale ma anche stella dei naviganti, che più tardi i Romani identificarono nella sua facies mattutina come Lucifero e in quella serale come Vespero. E Roma è palindromo di Amor. Sarebbe questo il nome segreto di Roma?
Il culto di Venere Genitrice e di Marte trovò grande diffusione in epoca augustea, dove ai due dei si dedicò lo stesso tempio, quello di Marte Ultore, i cui resti campeggiano nel Foro Romano, forse ad evidenziarne la complementarietà: Marte è l’elemento maschile e guerriero (d’altra parte Roma si fonda su un fratricidio), Venere rappresenta la figura materna, la Genitrice che allatta, come fa la lupa del mito con i gemelli Romolo e Remo: è “alma Venus”, come scrive Lucrezio nel “De rerum natura”, invocandone l’aiuto in tempi così difficili per la res publica. Perché avrebbe dovuto farlo, se non per sottolineare implicitamente il ruolo fondamentale della dea nella costruzione della potenza romana? Ed è significativo che alla figura della dea della fertilità associ quella di Marte, in posizione anche iconograficamente subalterna.
Sembra, quella del poeta epicureo, una allusione alle origini storiche e mitologiche della città di Roma: quelle storiche, relative a Marte che ingravida Rea Silvia, la quale partorirà i gemelli; quelle mitiche e poetiche evidenziate dal racconto che il cantore della Roma augustea, Virgilio, fa di Enea, figlio di Venere, e dei compagni troiani approdati nel Lazio.
Tale è la supposizione che tanti hanno fatto, senza peraltro esaurire le suggestioni possibili. Sappiamo ad esempio che il poeta Ovidio subì la relegatio a Tomi nell’8 d.C., sul Mar Nero, a causa di un carmen e di un error: così ci confessa il poeta di Sulmona senza, peraltro, approfondire la questione. I commentatori successivi hanno pertanto supposto che il carmen che aveva suscitato lo sdegno e la condanna di Augusto, alle prese con una difficile (e tutta formale) restauratio della pubblica (ma non privata) moralità, fosse l’ “Ars Amatoria”, opera di precettistica dallo spirito libertino ma anche rappresentativo di una certa Roma cortigiana e disinibita; e che l’error fosse invece dovuto ad aver rivelato gli adulteri della nipote dell’imperatore, la -a dir poco- spregiudicata Giulia Minore. Tuttavia non vi è certezza: altri commentatori affermano che il carmen sia riconducibile ai “Fasti” (forse non casualmente interrotti), poemetto eziologico-antiquario, e l’error al fatto che il poeta ingenuamente abbia rivelato il nome segreto di Roma. Quale?



Forse ancora Amor, come attesterebbe un graffito ritrovato a Pompei contraddistinto da quattro righe disposte a quadrato che, lette nella sequenza alto-basso-destra-alto, compongono due parole alternate: ROMA/AMOR in maniera che l’ultima lettera di ogni parola (vocale o consonante) costituisca la prima lettera della parola successiva. Tuttavia appare singolare che un segreto di tale portata, probabilmente noto solo agli iniziati, fosse reso pubblico in maniera così evidente.
Alcuni ipotizzano anche un altro nome, Maia, legandolo proprio ai “Fasti” e alla loro (casuale?) interruzione alla trattazione del mese di giugno. Maia è la stella (un’altra stella!) più importante della costellazione delle Pleiadi e pertanto sarebbe possibile che Ovidio, che di Maia avrebbe dovuto parlare nella sezione dedicata al mese di maggio (Maius) si sia lasciato “scappare” qualche imprudente allusione.

Di ben altro parere è stato il poeta Giovanni Pascoli, raffinato cultore del mondo classico, tanto da aver vinto per ben 13 volte il concorso di Amsterdam di poesia in lingua latina. Nel suo Inno a Roma (1911) scrisse:
…..
— ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi,
dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo
che si riveli, poi ch’è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fosse, e solo nei misteri
segretamente s’inalzò tra gl’inni:
…….…….……………….……………….…….
Amor! oh! l’invincibile in battaglia!
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
oh! tu che corri l’infinito mare!
Vennero in prima schiere a te, per l’onde,
d’esuli armati, ed una stella d’oro
reggea le navi incerte del cammino;
a te noi genti italiche la stella
d’allora, tra le fiamme e tra le morti,
col raggio addusse che giammai non muta.
Ancora una volta Amor sarebbe, secondo Pascoli, il nome segreto di Roma e la stella d’oro del testo sarebbe allusione evidente a Venere, cui rimandano peraltro altri commentatori sia pure sotto diverse facies. Un nome palindromo dai connotati magici e autoreferenziali, chiuso com’è nella sua autosufficiente perfezione.
Pascoli cita inoltre “tre nomi”: Roma, il nome pubblico; Amor , il nome segreto; e Flora ( o Florens) quello sacro, accogliendo la versione dello scrittore bizantino Giovanni Lorenzo Lido, che per primo formulò un’idea chiara su di essi.
Sempre nello stesso “Inno a Roma” così scrive:
Flora! madre dei fiori, o tu cui sempre
è primavera, o tu che per le genti
immense hai sparso il nuvolo dei semi;
la Terra aiuta! Questa pia saturnia
terra produca in maggior copia i frutti
che già versava dal fecondo grembo.
Nutra di sé quelli che già nutriva,
armenti e greggi, e tornino gli uccelli,
ormai spariti, a liberare i campi,
e per i campi floridi echeggiare
facciano la dolcezza del lor canto.
Alle mammelle opime della Terra
sugga una prole più gagliarda il latte
e insiem col latte la virtù romana;
I Floralia, è interessante notarlo, si festeggiavano a Roma dal 28 aprile al 3 maggio, periodo dell’anno che Ovidio, quando fu relegato a Tomi dall’imperatore, aveva già trattato nei “Fasti”: erano feste a carattere sovente orgiastico e licenzioso, in cui uomini e donne abbandonavano temporaneamente il ritegno per abbandonarsi alla sensualità, forse a rimarcare che sessualità e fertilità naturale (il culto della dea Flora) fossero elementi non solo importanti per la civiltà romana, ma che addirittura ne costituissero il tratto caratteristico. Che sia Flora il nome sacrale e non Maia (nome segreto), il nome a cui il poeta di Sulmona alluse? In ogni caso sembra evidente che la scelta di fondare Roma il 21 aprile (mese primaverile, riferito alla rinascita della Natura e all’eternità dell’Urbe) del 753 a.C. potrebbe essere non casuale, poiché potrebbe inserirsi in un’idea formulata a posteriori dai commentatori e dagli storici romani, quella di una Roma che rinasce continuamente più potente che mai. Pascoli poi insiste sull’immagine delle mammelle opime e del latte, insinuando forse anche l’idea di una Roma etimologicamente legata alla mammella e dunque alla fertilità della Dea Madre (Venere Genitrice= Amor), evidentemente affascinato dall’idea di un profondo e misterioso legame tra la potenza maschile di Roma e la fecondità della natura.
Nihal






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