lago di Nemi Il mistero delle Navi etc
Quello delle navi del lago di Nemi è stato un caso archeologico clamoroso, oggi del tutto dimenticato. In tutte le enciclopedie leggiamo che furono fatte costruire da Caligola, affondate e poi recuperate abbassando il livello del lago. Furono distrutte durante l’ultima guerra, a causa di un incendio provocato dalle truppe tedesche. Nei pressi si trovano ruderi del Tempio di Diana Nemorense. Per recuperare le navi, Benito Mussolini, negli Anni Trenta, organizzò un’operazione lunga e complessa durata quattro anni e che coinvolse la Regia Marina. Lo scopo del Duce era quello di dimostrare la forza del Regime fascista nel recuperare le “Navi dei Giganti” com’erano allora chiamate. Già nel 1446, il Cardinale Prospero Colonna aveva incaricato l’architetto Leon Battista Alberti di fare delle ricerche sul fondale del lago e furono allora recuperati solo pochi resti.
Fino all’ottocento ci furono vari tentativi di studiare queste navi e recuperarle ma tutti gli sforzi furono vani. Nel 1923 Benito Mussolini, che amava proclamare la gloria di Roma Antica, capì al volo l’importanza propagandistica del recupero delle due enormi navi che erano state attribuite a Caligola. Per fare ciò il Duce decise di prosciugare il lago di Nemi. E così fu fatto. Grande meraviglia, la prima nave emersa in superficie era lunga più di ottanta metri. Queste navi inspiegabilmente bruciarono il 31 maggio del 1944 poco prima che gli americani arrivassero a prenderne possesso. Fu allora un’operazione colossale ma lo scenario nel quale vanno collocate le Navi dei Giganti sarebbe ben diverso da quello romanico imposto da Mussolini. Alcuni studiosi si sono infatti accorti che in alcune mappe compilate tra il 1200 e il 1500 sono presenti alcune caratteristiche geografiche di migliaia di anni prima: per esempio la nota Carta Veneziana del 1474 o il Portolano di Dulcert, carta “impossibile” ricopiata da Dulcert probabilmente da un’altra precedente vecchia di diversi millenni e tracciata da una civiltà perduta nelle nebbie del passato. Qui la linea costiera del Basso Lazio, tra Roma e Napoli è diversa da quella di oggi, con il Mar Tirreno che penetra nel territorio laziale formando un grande golfo. Una civiltà umana sarebbe esistita tra il 38000 e il 26000 prima di Cristo, Caligola venne tirato in ballo perché nelle Vite dei dodici Cesari si dilettava nel costruire navi liburniche e a bordo di queste navi l’imperatore costeggiava la Campania tra musiche e danze. Caligola divenne imperatore nel 37 dopo Cristo e venne assassinato nel 41. Quindi le navi avrebbero dovuto essere progettate e costruite durante i tre anni del breve regno. Inoltre, la tecnologia presente sulle due imbarcazioni è più avanzata di quanto ci si aspetterebbe. Si trattava di scafi potenti e veloci, qualcuno ipotizza forse idromagnetici, che sfrecciavano lungo le coste di quel grande golfo preistorico che caratterizzava il Basso Lazio nel pieno dell’Era Glaciale, circa 30000 anni fa. Non solo, ma nel lago di Nemi ci sono diversi altri enigmi archeologici ancora insoluti come quello di un condotto di 1635 metri scavato nella roccia basaltica non si sa come ne’da chi. Secondo il parere di specialisti in materia, la realizzazione di una simile opera nel 4° secolo avanti Cristo doveva essere un’impresa pari alla costruzione del traforo del Monte Bianco. Questa struttura non è citata da nessuna fonte o da illustri come Stradone. Ci sono in fondo al lago cunicoli enigmatici, gallerie e camere sotterranee. Chi e’ stato l’artefice di tutto ciò? Non certamente Caligola. Ancora oggi rimane un mistero insoluto.
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Il paese
Le prime tracce di insediamenti umani nella valle del lago di Nemi datano almeno dall’Età del Bronzo. Il bosco, luogo sacro in ogni civiltà indoeuropea, fu sede di culti legati alla grande e onnipossente Dea Madre - la dea della vita in ogni sua forma, umana, animale e vegetale - poi identificata con la dea romana Diana e assimilata con la greca Artemide, il cui simbolo era la luna; e il lago di Nemi, in cui la luna si specchia, fu detto ‘specchio di Diana’. Nella valle fu edificato un tempio a questa dea (c’era un appuntamento fisso tutti gli anni, il 13 di agosto, le cosiddette Idus nemorenses da cui derivano le feriae augustae d’epoca romana e quindi il nostro Ferragosto); il luogo divenne un punto di raduno per i popoli pre-romani, che qui facevano dei ‘summit’ di politica estera (Roma stava cominciando la sua inarrestabile espansione territoriale, e sentendosi minacciati concordavano alleanze fra di loro). Quando Roma infine conquistò il territorio sbaragliando la confederazione di questi popoli, la Lega Latina (338 a.C.), il Santuario perse ogni funzione politica divenendo un vero e proprio luogo di culto, e sul finire del II sec. a.C. fu spostato più a riva, ricevette un aspetto monumentale e si arricchì di strutture termali per la cura di svariati malanni. L’afflusso di devoti da Roma era tale che si costruì la via Virbia in diramazione dall’Appia (è in parte ancora visibile lungo i bordi dell’attuale via di Diana che scende da Genzano e anche all’interno del Museo delle Navi). Folle di pellegrini andavano al Santuario per ottenere la guarigione dalla dea della vita, e soprattutto vi si recavano le donne sterili per implorare la fecondità.
E arriviamo a Caligola. Perché Caligola? Perché quando si recuperarono le navi (che fino a quel momento la voce popolare aveva attribuito a Tiberio) si scoprì che esse erano collegate a riva da un sistema di tubature di piombo per il rifornimento di acqua potabile. E sulle fistulae, cioè sulle lamiere che componevano i tubi, era impresso il nome del committente: Caii Caesaris Aug. Germanici, cioè quello che i suoi soldati prima e la storia poi chiamarono Caligola - cioè Stivaletto, dal nome delle calzature usate dai soldati e che il futuro imperatore da bambino amava portare, le caligae. Caio Cesare Germanico Caligola, che regnò dal 37 al 41 d.C., il pronipote di Tiberio.
Allevato in Egitto e devoto alla dea Iside (personificazione anche lei della Luna, come Diana), l’imperatore veniva proprio sul lago di Nemi a compiere i suoi riti che si svolgevano su due navi a scafo piatto, stracariche di ornamenti, statue, mosaici, tempietti, sovrastrutture varie - navi non infrequenti nell’antichità, sia romana che d’altri luoghi del Mediterraneo, che erano chiamate thalamegi o thalamiferae, da thalamus, cabina: vascelli ‘di pompa’, ovvero usati per fare sfoggio di ricchezza; da usarsi in acque tranquille per semplice diporto, e non adatte alla navigazione in mare aperto.
Ma Caligola (è assolutamente ingiusta la nomea di pazzo e sanguinario che la Storia ufficiale gli ha riservato, perché fu invece sovrano illuminato e clemente) accanto alla devozione per Iside aveva anche concezioni politiche avanzatissime, e soprattutto tentava di togliere progressivamente al Senato i suoi poteri. Questo naturalmente non piacque agli aristocratici, i quali complottarono a suo danno (a quei tempi le congiure di palazzo andavano per la maggiore a Roma), lo fecero uccidere e ne decretarono, con la damnatio memoriae, la condanna perenne al biasimo e all’oblìo. Questa pena singolare, di cui i Romani facevano largo uso, e che toccò anche a Nerone, consisteva nel distruggere iscrizioni, statue, medaglie, monete, tutto ciò che riportasse il nome o l’effigie dell’odiato tiranno, o che fosse particolarmente rappresentativo del suo potere. Insomma, le navi avrebbero fatto ricordare Caligola per sempre, così furono affondate.
E giù per i secoli sopravvisse la storia di due navi favolose, due regge galleggianti, cariche di tesori, protette da mostri acquatici, che giacevano sul fondo del lago.
Nel Medioevo infine alcuni pescatori, le cui reti s’erano incagliate in qualcosa di sommerso, si tuffarono e scopersero che c’era un ‘qualcosa’ pieno di statue ed altro. Allora era tutto vero, le navi esistevano, il tesoro c’era! La fantasia popolare si scatenò; gli amatori d’antichità cominciarono a pensare al loro recupero. Tutti i grandi cervelli del Rinascimento si cimentarono col problema, basti nominare Leon Battista Alberti. Molti tentativi vennero fatti; alcuni molto pittoreschi, altri tanto maldestri da porre in serio pericolo l’esistenza stessa delle navi. Rimasero comunque tutti ugualmente infruttuosi; si riuscì solo ad asportare statue ed ornamenti che divennero parte di patrimoni privati o presero la via dell’Estero.
Con l’Unità d’Italia infine si decise di fare le cose in modo veramente scientifico. La Commissione governativa incaricata di studiare il problema arrivò alla conclusione che l’unica via per recuperare le navi intatte era quella di prosciugare il lago: un grosso strato di fango pesava sui due scafi, e tentare di imbracarli e tirarli su, come si era fatto fino ad allora, avrebbe significato spezzarli. Così l’industria italiana si mobilitò in generosa gara a fornire macchinari, attrezzi, soluzioni geniali: si costrurono 4 pompe appositamente studiate - fu la prima stazione di pompaggio galleggiante al mondo: non era possibile installare pompe fisse dalla riva - si ripristinò l’antico emissario per portar via l’acqua; furono necessari in tutto quasi 5 anni di lavoro, si aspirarono circa 40 milioni di metri cubi d’acqua; il livello delle acque fu abbassato di circa 20 metri.
Infine la prima delle due navi apparve sotto gli occhi degli astanti. Era il 1929. La nave fu portata in secco e ricoverata sulla riva. L’eco dell’impresa fu enorme in tutto il mondo. Il nome di Nemi rimbalzò da un punto all’altro della Terra, e grande fu l’ammirazione degli stranieri per l’Italia. Poi si tirò fuori la seconda nave, e venne costruito il Museo destinato ad ospitarle.
Ma le fatiche, durate 500 anni e finalmente giunte al successo, furono bruscamente vanificate nella notte del 30 maggio del 1944, quando, durante uno degli ultimi cannoneggiamenti americani, il museo prese misteriosamente fuoco. Non fu colpito da una bomba: s’incendiò. La commissione incaricata in seguito di appurare i fatti arrivò alla conclusione che l’incendio era stato doloso, e che l’unica ipotesi possibile fosse che i Tedeschi in ritirata avessero appiccato il fuoco prima di evacuare la zona. Oggi ci sono dei dubbi su questa ipotesi: non si capisce perché l’avrebbero fatto. C’è chi preferisce dar credito all’idea che una favilla sia sfuggita ai fuochi accesi dagli sfollati che erano stati ricoverati proprio nel museo. Il mistero rimane. E rimane il danno. Le navi erano perse per sempre. Si salvarono solo le parti non infiammabili e quelle asportabili, che erano state previdentemente portate a Roma l’anno prima.
Torniamo a Nemi. Il paese cominciò ad esistere solo quando fu edificato il castello, nel secolo IX. I potenti conti di Tuscolo si impadronirono della comunità agricola della valle del lago, la cosiddetta massa nemus, che produceva vino e frutta in grande abbondanza ed apparteneva alla Basilica di Albano per donazione di Costantino. I nuovi padroni fortificarono la zona più elevata, che dominava tutto il lago ed era inattaccabile da tre lati, dando origine a quello che nei testi dell’epoca viene definito Castrum Nemoris, cioè ‘la cittadella del bosco’. La popolazione di contadini e pescatori che viveva sparsa nella valle trovò più sicuro avvicinarsi al fortilizio, e costruì la parte più antica di Nemi, quella che oggi è detta Pullarella e che era un poco più estesa del rione oggi esistente. Un settore infatti fu demolito all’inizio del ‘900 per far posto a un giardino, in parte pensile, voluto dal Principe don Enrico Ruspoli. ("... l’antico ingresso era tutt’uno con l’unica porta del paesello, il quale per altro si riduceva al piccolo quartiere della Pullarella... esso da tre lati è delimitato da un profondo dirupo a picco, mentre il quarto lato era occupato dal Castello; quindi la posizione era per quei tempi pressoché inespugnabile, dato che gli assalitori o dovevano fornirsi di ali per dar la scalata dalla parte del lago, oppure avanzando dalla parte del monte avrebbero cozzato contro il massiccio sistema delle torri. Altra via non c’era." Padre Marsilio, Nemi pittoresca e le navi di Roma, 1935)
Verso la metà dell’XI secolo, decaduti i conti di Tuscolo, il Papa concesse il feudo di Nemi ai Monaci Cistercensi; furono loro che costruirono la torre principale del Palazzo (che era merlata) e il primo complesso monastico. Il feudo dei monaci durò fino al XIII secolo, quando divenne dei Colonna; poi Nemi passò, per donazioni, acquisti, matrimoni ed eredità, da una all’altra famiglia del patriziato romano: Annibaldi, Cesarini, Piccolomini, Cenci, Frangipane, Braschi, Rospigliosi, Orsini, Ruspoli; fra i tanti signori che possedettero il palazzo ci fu anche Roderigo, figlio di Lucrezia Borgia.
Con i Frangipane, la cui signoria va dalla metà del ‘500 alla metà del ‘700, Nemi cominciò a prendere l’aspetto attuale, espandendosi verso il monte; si costruì l’attuale parrocchia di s.Maria del Pozzo e il rione intorno ad essa, e il convento dei Francescani (ora dei Mercedari) con l’annesso Santuario del SS.Crocifisso. Contemporaneamente si ampliava anche il Palazzo (l’imponente ‘ala Frangipane’, che si estende fra la Braccarìa e il Belvedere Dante Alighieri). Sotto i Braschi fu ulteriormente ampliato (dal famoso architetto Valadier, quello del Pincio) con l’ala che dà sul Belvedere in piazza Umberto I, e abbellito con affreschi di Liborio Coccetti (seconda metà del ‘700).
L’economia di Nemi nei secoli è stata affidata alla Natura e all’operosità dei suoi abitanti. Le risorse infatti, prima che si sviluppasse il turismo, erano la pesca nel lago e le coltivazioni della valle. Il lago era molto ricco d’ogni specie ittica lacustre, tanto da farne largo commercio con i paesi circostanti; e quanto alle coltivazioni, il microclima della valle ha sempre molto favorito le colture di frutta e ortaggi. Traballanti carretti carichi di frutti (soprattutto mele, pesche, nocciole e le celeberrime fragole) portavano a Roma ogni giorno provviste destinate a più della metà della popolazione urbana in epoca papalina. E rinomate erano le cipolle, che qui venivano particolarmente dolci per via della peculiare composizione del terreno. Le pendici del cratere, pazientemente terrazzate, erano coperte di fiori e alberi, e non mancava la vite. Leon Battista Alberti, quando frequentò Nemi per tentare il recupero delle navi, così descrive il luogo: "... fruttiferi alberi d’ogni maniera, essendo il paese coltivato che non si ritrova paese tanto dilettevole e fruttifero che lo superi nell’amenità e fertilità". E Papa Pio II, nei suoi Commentarii, scrive: "Omnis planities et omnis rupes ad supercilium montis arboribus fructiferis tegitur: partim castaneae tegunt pulcherrimae virentes, partes maiores nuces in ordinem positae... cum ferax est annus hinc poma in urbem, quae plebi sufficiunt, efferuntur" (ogni piana e ogni rupe fino al ciglio del monte è coperta di alberi da frutta: in parte di castagni bellissimi e vigorosi, in parte di noci posti in filari... quando l’annata è buona, da qui si portano in città frutti da bastare al popolo).
Lontana dal flusso viario dell’Appia (l’unica via d’accesso fino al 1936 era la diramazione da Genzano), Nemi rimase uno dei più appartati fra i Castelli Romani. Divenne improvvisamente famosa in tutto il mondo col ripescaggio delle navi romane, anche grazie alla costruzione della panoramica via dei Laghi. Oggi è una delle mète preferite dai romani per gite e villeggiatura.
Quello delle navi del lago di Nemi è stato un caso archeologico clamoroso, oggi del tutto dimenticato. In tutte le enciclopedie leggiamo che furono fatte costruire da Caligola, affondate e poi recuperate abbassando il livello del lago. Furono distrutte durante l’ultima guerra, a causa di un incendio provocato dalle truppe tedesche. Nei pressi si trovano ruderi del Tempio di Diana Nemorense. Per recuperare le navi, Benito Mussolini, negli Anni Trenta, organizzò un’operazione lunga e complessa durata quattro anni e che coinvolse la Regia Marina. Lo scopo del Duce era quello di dimostrare la forza del Regime fascista nel recuperare le “Navi dei Giganti” com’erano allora chiamate. Già nel 1446, il Cardinale Prospero Colonna aveva incaricato l’architetto Leon Battista Alberti di fare delle ricerche sul fondale del lago e furono allora recuperati solo pochi resti.
Fino all’ottocento ci furono vari tentativi di studiare queste navi e recuperarle ma tutti gli sforzi furono vani. Nel 1923 Benito Mussolini, che amava proclamare la gloria di Roma Antica, capì al volo l’importanza propagandistica del recupero delle due enormi navi che erano state attribuite a Caligola. Per fare ciò il Duce decise di prosciugare il lago di Nemi. E così fu fatto. Grande meraviglia, la prima nave emersa in superficie era lunga più di ottanta metri. Queste navi inspiegabilmente bruciarono il 31 maggio del 1944 poco prima che gli americani arrivassero a prenderne possesso. Fu allora un’operazione colossale ma lo scenario nel quale vanno collocate le Navi dei Giganti sarebbe ben diverso da quello romanico imposto da Mussolini. Alcuni studiosi si sono infatti accorti che in alcune mappe compilate tra il 1200 e il 1500 sono presenti alcune caratteristiche geografiche di migliaia di anni prima: per esempio la nota Carta Veneziana del 1474 o il Portolano di Dulcert, carta “impossibile” ricopiata da Dulcert probabilmente da un’altra precedente vecchia di diversi millenni e tracciata da una civiltà perduta nelle nebbie del passato. Qui la linea costiera del Basso Lazio, tra Roma e Napoli è diversa da quella di oggi, con il Mar Tirreno che penetra nel territorio laziale formando un grande golfo. Una civiltà umana sarebbe esistita tra il 38000 e il 26000 prima di Cristo, Caligola venne tirato in ballo perché nelle Vite dei dodici Cesari si dilettava nel costruire navi liburniche e a bordo di queste navi l’imperatore costeggiava la Campania tra musiche e danze. Caligola divenne imperatore nel 37 dopo Cristo e venne assassinato nel 41. Quindi le navi avrebbero dovuto essere progettate e costruite durante i tre anni del breve regno. Inoltre, la tecnologia presente sulle due imbarcazioni è più avanzata di quanto ci si aspetterebbe. Si trattava di scafi potenti e veloci, qualcuno ipotizza forse idromagnetici, che sfrecciavano lungo le coste di quel grande golfo preistorico che caratterizzava il Basso Lazio nel pieno dell’Era Glaciale, circa 30000 anni fa. Non solo, ma nel lago di Nemi ci sono diversi altri enigmi archeologici ancora insoluti come quello di un condotto di 1635 metri scavato nella roccia basaltica non si sa come ne’da chi. Secondo il parere di specialisti in materia, la realizzazione di una simile opera nel 4° secolo avanti Cristo doveva essere un’impresa pari alla costruzione del traforo del Monte Bianco. Questa struttura non è citata da nessuna fonte o da illustri come Stradone. Ci sono in fondo al lago cunicoli enigmatici, gallerie e camere sotterranee. Chi e’ stato l’artefice di tutto ciò? Non certamente Caligola. Ancora oggi rimane un mistero insoluto.
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Il paese
Le prime tracce di insediamenti umani nella valle del lago di Nemi datano almeno dall’Età del Bronzo. Il bosco, luogo sacro in ogni civiltà indoeuropea, fu sede di culti legati alla grande e onnipossente Dea Madre - la dea della vita in ogni sua forma, umana, animale e vegetale - poi identificata con la dea romana Diana e assimilata con la greca Artemide, il cui simbolo era la luna; e il lago di Nemi, in cui la luna si specchia, fu detto ‘specchio di Diana’. Nella valle fu edificato un tempio a questa dea (c’era un appuntamento fisso tutti gli anni, il 13 di agosto, le cosiddette Idus nemorenses da cui derivano le feriae augustae d’epoca romana e quindi il nostro Ferragosto); il luogo divenne un punto di raduno per i popoli pre-romani, che qui facevano dei ‘summit’ di politica estera (Roma stava cominciando la sua inarrestabile espansione territoriale, e sentendosi minacciati concordavano alleanze fra di loro). Quando Roma infine conquistò il territorio sbaragliando la confederazione di questi popoli, la Lega Latina (338 a.C.), il Santuario perse ogni funzione politica divenendo un vero e proprio luogo di culto, e sul finire del II sec. a.C. fu spostato più a riva, ricevette un aspetto monumentale e si arricchì di strutture termali per la cura di svariati malanni. L’afflusso di devoti da Roma era tale che si costruì la via Virbia in diramazione dall’Appia (è in parte ancora visibile lungo i bordi dell’attuale via di Diana che scende da Genzano e anche all’interno del Museo delle Navi). Folle di pellegrini andavano al Santuario per ottenere la guarigione dalla dea della vita, e soprattutto vi si recavano le donne sterili per implorare la fecondità.
E arriviamo a Caligola. Perché Caligola? Perché quando si recuperarono le navi (che fino a quel momento la voce popolare aveva attribuito a Tiberio) si scoprì che esse erano collegate a riva da un sistema di tubature di piombo per il rifornimento di acqua potabile. E sulle fistulae, cioè sulle lamiere che componevano i tubi, era impresso il nome del committente: Caii Caesaris Aug. Germanici, cioè quello che i suoi soldati prima e la storia poi chiamarono Caligola - cioè Stivaletto, dal nome delle calzature usate dai soldati e che il futuro imperatore da bambino amava portare, le caligae. Caio Cesare Germanico Caligola, che regnò dal 37 al 41 d.C., il pronipote di Tiberio.
Allevato in Egitto e devoto alla dea Iside (personificazione anche lei della Luna, come Diana), l’imperatore veniva proprio sul lago di Nemi a compiere i suoi riti che si svolgevano su due navi a scafo piatto, stracariche di ornamenti, statue, mosaici, tempietti, sovrastrutture varie - navi non infrequenti nell’antichità, sia romana che d’altri luoghi del Mediterraneo, che erano chiamate thalamegi o thalamiferae, da thalamus, cabina: vascelli ‘di pompa’, ovvero usati per fare sfoggio di ricchezza; da usarsi in acque tranquille per semplice diporto, e non adatte alla navigazione in mare aperto.
Ma Caligola (è assolutamente ingiusta la nomea di pazzo e sanguinario che la Storia ufficiale gli ha riservato, perché fu invece sovrano illuminato e clemente) accanto alla devozione per Iside aveva anche concezioni politiche avanzatissime, e soprattutto tentava di togliere progressivamente al Senato i suoi poteri. Questo naturalmente non piacque agli aristocratici, i quali complottarono a suo danno (a quei tempi le congiure di palazzo andavano per la maggiore a Roma), lo fecero uccidere e ne decretarono, con la damnatio memoriae, la condanna perenne al biasimo e all’oblìo. Questa pena singolare, di cui i Romani facevano largo uso, e che toccò anche a Nerone, consisteva nel distruggere iscrizioni, statue, medaglie, monete, tutto ciò che riportasse il nome o l’effigie dell’odiato tiranno, o che fosse particolarmente rappresentativo del suo potere. Insomma, le navi avrebbero fatto ricordare Caligola per sempre, così furono affondate.
E giù per i secoli sopravvisse la storia di due navi favolose, due regge galleggianti, cariche di tesori, protette da mostri acquatici, che giacevano sul fondo del lago.
Nel Medioevo infine alcuni pescatori, le cui reti s’erano incagliate in qualcosa di sommerso, si tuffarono e scopersero che c’era un ‘qualcosa’ pieno di statue ed altro. Allora era tutto vero, le navi esistevano, il tesoro c’era! La fantasia popolare si scatenò; gli amatori d’antichità cominciarono a pensare al loro recupero. Tutti i grandi cervelli del Rinascimento si cimentarono col problema, basti nominare Leon Battista Alberti. Molti tentativi vennero fatti; alcuni molto pittoreschi, altri tanto maldestri da porre in serio pericolo l’esistenza stessa delle navi. Rimasero comunque tutti ugualmente infruttuosi; si riuscì solo ad asportare statue ed ornamenti che divennero parte di patrimoni privati o presero la via dell’Estero.
Con l’Unità d’Italia infine si decise di fare le cose in modo veramente scientifico. La Commissione governativa incaricata di studiare il problema arrivò alla conclusione che l’unica via per recuperare le navi intatte era quella di prosciugare il lago: un grosso strato di fango pesava sui due scafi, e tentare di imbracarli e tirarli su, come si era fatto fino ad allora, avrebbe significato spezzarli. Così l’industria italiana si mobilitò in generosa gara a fornire macchinari, attrezzi, soluzioni geniali: si costrurono 4 pompe appositamente studiate - fu la prima stazione di pompaggio galleggiante al mondo: non era possibile installare pompe fisse dalla riva - si ripristinò l’antico emissario per portar via l’acqua; furono necessari in tutto quasi 5 anni di lavoro, si aspirarono circa 40 milioni di metri cubi d’acqua; il livello delle acque fu abbassato di circa 20 metri.
Infine la prima delle due navi apparve sotto gli occhi degli astanti. Era il 1929. La nave fu portata in secco e ricoverata sulla riva. L’eco dell’impresa fu enorme in tutto il mondo. Il nome di Nemi rimbalzò da un punto all’altro della Terra, e grande fu l’ammirazione degli stranieri per l’Italia. Poi si tirò fuori la seconda nave, e venne costruito il Museo destinato ad ospitarle.
Ma le fatiche, durate 500 anni e finalmente giunte al successo, furono bruscamente vanificate nella notte del 30 maggio del 1944, quando, durante uno degli ultimi cannoneggiamenti americani, il museo prese misteriosamente fuoco. Non fu colpito da una bomba: s’incendiò. La commissione incaricata in seguito di appurare i fatti arrivò alla conclusione che l’incendio era stato doloso, e che l’unica ipotesi possibile fosse che i Tedeschi in ritirata avessero appiccato il fuoco prima di evacuare la zona. Oggi ci sono dei dubbi su questa ipotesi: non si capisce perché l’avrebbero fatto. C’è chi preferisce dar credito all’idea che una favilla sia sfuggita ai fuochi accesi dagli sfollati che erano stati ricoverati proprio nel museo. Il mistero rimane. E rimane il danno. Le navi erano perse per sempre. Si salvarono solo le parti non infiammabili e quelle asportabili, che erano state previdentemente portate a Roma l’anno prima.
Torniamo a Nemi. Il paese cominciò ad esistere solo quando fu edificato il castello, nel secolo IX. I potenti conti di Tuscolo si impadronirono della comunità agricola della valle del lago, la cosiddetta massa nemus, che produceva vino e frutta in grande abbondanza ed apparteneva alla Basilica di Albano per donazione di Costantino. I nuovi padroni fortificarono la zona più elevata, che dominava tutto il lago ed era inattaccabile da tre lati, dando origine a quello che nei testi dell’epoca viene definito Castrum Nemoris, cioè ‘la cittadella del bosco’. La popolazione di contadini e pescatori che viveva sparsa nella valle trovò più sicuro avvicinarsi al fortilizio, e costruì la parte più antica di Nemi, quella che oggi è detta Pullarella e che era un poco più estesa del rione oggi esistente. Un settore infatti fu demolito all’inizio del ‘900 per far posto a un giardino, in parte pensile, voluto dal Principe don Enrico Ruspoli. ("... l’antico ingresso era tutt’uno con l’unica porta del paesello, il quale per altro si riduceva al piccolo quartiere della Pullarella... esso da tre lati è delimitato da un profondo dirupo a picco, mentre il quarto lato era occupato dal Castello; quindi la posizione era per quei tempi pressoché inespugnabile, dato che gli assalitori o dovevano fornirsi di ali per dar la scalata dalla parte del lago, oppure avanzando dalla parte del monte avrebbero cozzato contro il massiccio sistema delle torri. Altra via non c’era." Padre Marsilio, Nemi pittoresca e le navi di Roma, 1935)
Verso la metà dell’XI secolo, decaduti i conti di Tuscolo, il Papa concesse il feudo di Nemi ai Monaci Cistercensi; furono loro che costruirono la torre principale del Palazzo (che era merlata) e il primo complesso monastico. Il feudo dei monaci durò fino al XIII secolo, quando divenne dei Colonna; poi Nemi passò, per donazioni, acquisti, matrimoni ed eredità, da una all’altra famiglia del patriziato romano: Annibaldi, Cesarini, Piccolomini, Cenci, Frangipane, Braschi, Rospigliosi, Orsini, Ruspoli; fra i tanti signori che possedettero il palazzo ci fu anche Roderigo, figlio di Lucrezia Borgia.
Con i Frangipane, la cui signoria va dalla metà del ‘500 alla metà del ‘700, Nemi cominciò a prendere l’aspetto attuale, espandendosi verso il monte; si costruì l’attuale parrocchia di s.Maria del Pozzo e il rione intorno ad essa, e il convento dei Francescani (ora dei Mercedari) con l’annesso Santuario del SS.Crocifisso. Contemporaneamente si ampliava anche il Palazzo (l’imponente ‘ala Frangipane’, che si estende fra la Braccarìa e il Belvedere Dante Alighieri). Sotto i Braschi fu ulteriormente ampliato (dal famoso architetto Valadier, quello del Pincio) con l’ala che dà sul Belvedere in piazza Umberto I, e abbellito con affreschi di Liborio Coccetti (seconda metà del ‘700).
L’economia di Nemi nei secoli è stata affidata alla Natura e all’operosità dei suoi abitanti. Le risorse infatti, prima che si sviluppasse il turismo, erano la pesca nel lago e le coltivazioni della valle. Il lago era molto ricco d’ogni specie ittica lacustre, tanto da farne largo commercio con i paesi circostanti; e quanto alle coltivazioni, il microclima della valle ha sempre molto favorito le colture di frutta e ortaggi. Traballanti carretti carichi di frutti (soprattutto mele, pesche, nocciole e le celeberrime fragole) portavano a Roma ogni giorno provviste destinate a più della metà della popolazione urbana in epoca papalina. E rinomate erano le cipolle, che qui venivano particolarmente dolci per via della peculiare composizione del terreno. Le pendici del cratere, pazientemente terrazzate, erano coperte di fiori e alberi, e non mancava la vite. Leon Battista Alberti, quando frequentò Nemi per tentare il recupero delle navi, così descrive il luogo: "... fruttiferi alberi d’ogni maniera, essendo il paese coltivato che non si ritrova paese tanto dilettevole e fruttifero che lo superi nell’amenità e fertilità". E Papa Pio II, nei suoi Commentarii, scrive: "Omnis planities et omnis rupes ad supercilium montis arboribus fructiferis tegitur: partim castaneae tegunt pulcherrimae virentes, partes maiores nuces in ordinem positae... cum ferax est annus hinc poma in urbem, quae plebi sufficiunt, efferuntur" (ogni piana e ogni rupe fino al ciglio del monte è coperta di alberi da frutta: in parte di castagni bellissimi e vigorosi, in parte di noci posti in filari... quando l’annata è buona, da qui si portano in città frutti da bastare al popolo).
Lontana dal flusso viario dell’Appia (l’unica via d’accesso fino al 1936 era la diramazione da Genzano), Nemi rimase uno dei più appartati fra i Castelli Romani. Divenne improvvisamente famosa in tutto il mondo col ripescaggio delle navi romane, anche grazie alla costruzione della panoramica via dei Laghi. Oggi è una delle mète preferite dai romani per gite e villeggiatura.
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