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storielle della tradizione popolare Toscana


Il mondo di sotto

C'era una volta il re dell'Europa, che aveva tre figli. Il palazzo del re, grande e lussuoso, era circondato da un bellissimo giardino, e nel giardino c'era una pianta che faceva i pomi d'oro. Però né il re né i suoi figli erano mai riusciti a raccogliere uno di quei bellissimi pomi, perché ogni anno, appena erano sviluppati e pronti da cogliere, i pomi sparivano; certamente qualcuno veniva di notte nel giardino e li rubava, ma nessuno fu mai capace di scoprire il ladro.

Un giorno però il re volle presso di sé tutti e tre i figli per discutere insieme del problema e vedere se fossero riusciti a scoprire il ladro.

«Come possiamo fare?», diceva il re.

E Giovanni, il figlio minore, disse:

«Secondo me dovremmo fabbricare un capannello in fondo al giardino, vicino all'albero dei pomi d'oro, e subito da stanotte io prenderò un fucile e resterò nel capannello a far la guardia. Se verrà il ladro sparerò».

L'idea di Giovanni piacque anche ai fratelli che subito dissero:

«Sì sì papa, facciamo quel che ha detto Giovanni. Però non è giusto che soltanto lui si sacrifichi a far la guardia: faremo una notte per uno».

Anche il re fu d'accordo. I tre principi si misero subito all'opera e in breve tempo costruirono il capannello. Poi tirarono a sorte per vedere a chi sarebbe toccato di far la guardia la prima notte. Toccò al figlio maggiore.

Si armò di fucile e fece la guardia tutta la notte, ma non venne nessuno.

La notte seguente toccò al figlio mezzano. Anche lui rimase sveglio tutta la notte, ma non si vide nessuno.

Eravamo alla terza notte e toccava a Giovanni far la guardia. Anche lui andò nel capannello e stette sempre attento: nulla. Ecco però verso la mezzanotte cominciò a sentire un muglio che si faceva sempre più forte:

«Perdinci! O chi sarà mai a quest'ora?».

Rimase in ascolto, col fucile imbracciato, rivolto verso la pianta dei pomi d'oro. Il muglio si avvicinava... s'avvicinava lentamente. Ecco che d'improvviso vide un grosso corpo nero scavalcare il muro di cinta, precipitare nel giardino e dirigersi subito verso l'albero dei pomi d'oro.

Giovanni, nonostante avesse il fucile pronto, decise di non sparare subito.

Voleva vedere come si sarebbe comportato il ladro. Inoltre, poiché avevano fatto mettere lungo il fusto dell'albero dei lunghi ganci appuntiti, preferiva sparare quando il ladro fosse già salito sull'albero, così, cadendo, sarebbe rimasto impigliato nei ganci e non avrebbe potuto scappare.

Aspettò quindi che il ladro salisse; quando fu in alto, pronto per cogliere i meravigliosi frutti, Giovanni sparò un colpo e il ladro, ferito, cadde a terra, con il corpo martoriato anche dai ganci appuntiti del tronco.

Quando Giovanni vide il ladro ai piedi dell'albero, non si preoccupò di altro: pensò che fosse morto, colpito dalla fucilata e sbranato dai ganci. Non andò nemmeno a vedere chi fosse:

"Tanto è morto", pensò, "e io me ne posso andare a letto. Domattina vedremo di chi si tratta".

Il padre e i fratelli furono svegliati dalla fucilata, e in cuor loro si rallegrarono, pensando che Giovanni aveva finalmente scoperto e ucciso il misterioso ladro. Però nessuno di loro ritenne opportuno alzarsi per vedere direttamente quanto era successo. Si rigirarono nel letto e si rimisero a dormire.

Giovanni, dal canto suo, attraversò il giardino, entrò nel palazzo e se ne andò a letto soddisfatto.

La mattina il padre e i fratelli si alzarono e, per prima cosa, vollero vedere il ladro ucciso. Quale fu la loro meraviglia quando videro che non c'era più! C'era rimasta soltanto una pozza di sangue: segno evidente che il ladro era stato ferito.

Giovanni era molto contrariato e rammaricato per non essere andato subito a vedere, ma ormai era tardi.

Videro però che il ladro aveva lasciato una traccia di goccioline di sangue; seguirono quella traccia. Varcato il muro di cinta, la traccia proseguiva per la campagna coltivata; finiti i terreni coltivati, prendeva giù per la prateria e proseguiva nella macchia. Camminarono un pezzo, sempre seguendo le goccioline di sangue. Ma la macchia diventava sempre più folta e così decisero che il re e i fratelli maggiori sarebbero tornati al palazzo. Il re, vecchio, non ce la faceva più a continuare: sarebbe rimasto a casa; i fratelli invece sarebbero ritornati da Giovanni con le scuri per aprire un varco nella macchia.

Così fecero. Appena i fratelli furono tornati nel luogo dove avevano la­sciato Giovanni, insieme si misero a tagliare arbusti e cespugli per poter proseguire il cammino. Continuarono tutto il giorno seguendo la traccia del sangue. Verso sera arrivarono a una caverna: lì il sangue si arrestava. Segno evidente che il misterioso ladro era entrato nella caverna.

«E ora come facciamo?»

«Io», disse il fratello maggiore, «quaggiù dentro non ci vado di certo!». «Io tanto meno!», disse il fratello mezzano.

«Io invece vorrei proprio sapere chi è il ladro dei pomi d'oro. E se mi aiutate», disse Giovanni, «scenderò dentro la caverna. Ecco come faremo: voi due tornate a casa e stasera dormite là, io resterò qui. Domattina mi portate una carrucola, una fune lunga lunga e un corbello grande tanto che io possa entrarvi».

I due fratelli tornarono a casa e riferirono al padre le intenzioni di Giovanni.

La mattina seguente, procuratesi le cose che Giovanni aveva richiesto, tornarono alla caverna.

Arrivati, subito si misero all'opera: piazzarono la carrucola su un albero vicino, sistemarono la fune e legarono strettamente il corbello alla fune. Giovanni entrò dentro il corbello e disse ai fratelli di calarlo lentamente dentro la caverna.

«Qui dentro», disse, «io resterò un anno e tre giorni; voi mi dovete promettere che, fra un anno e tre giorni, tornerete qui e mi tirerete su.»

«Non dubitare!», risposero i fratelli.

Si salutarono e Giovanni fu lentamente calato nella caverna. Cala cala cala... dopo un bel po' il corbello toccò il fondo. I fratelli sentirono che la corda non scorreva più e se ne tornarono a casa.

Giovanni invece era arrivato nel mondo di sotto. Uscì dal corbello e si mise a girare: c'era tutto intorno una grande prateria di cui non si vedeva la fine: era una prateria magra, l'unica erba che vi cresceva era il paleo. Non sapeva da quale parte dirigersi e si mise a camminare a caso. Dopo un po' che camminava, vide uno steccato che circondava una piccola capanna di legno. Si avvicinò alla capanna sperando di trovarvi qualcuno a cui chiedere informazioni e soprattutto qualcosa da mangiare.

Girò intorno allo steccato e non riuscì a trovare una porta o un cancello per cui entrare; allora si allontanò di alcuni passi, prese la rincorsa esaltò di là. La capanna invece la porta ce l'aveva: una porta piccina piccina alla quale subito bussò. Si sentì una vocetta che disse:

«Chi è?».

«È un povero giovane che si è perso nel mondo di sotto.»

Presto la porticina si aprì e comparve una vecchia piccola e magra:

«O bel giovane, perché mai vi trovate quaggiù? Non lo sapete che è peri­coloso venire qui? Qui abitano tre maghi potentissimi, se per disgrazia vi trovano siete spacciato».

«E io sono venuto proprio per incontrare questi tre maghi.»

«No, bel giovane, è meglio che torniate via subito. Ascoltatemi!».

La vecchietta si raccomandava e scongiurava il giovane, ma senza potergli far mutare proposito.

Giovanni però, prima di riprendere il suo cammino per la prateria, chiese alla vecchietta se avesse avuto qualcosa da mangiare.

«Se vi accontentate di quello che ho. Io campo mangiando soltanto delle focaccine che faccio con le radici di quest'erba. La metto a cuocere sotto la cenere del focolare; se ne volete, posso darvene.»

Giovanni prese alcune focaccine e se le mangiò: in tempo di carestia anche il diavolo mangiava le mosche. Dopo che ebbe mangiato, ringraziò la vecchietta e s'incamminò per la prateria.

Cammina cammina cammina... continuò a camminare per un paio di mesi.  

In tutto quel tempo non mangiò che radici di paleo e bevve acqua alle sorgenti che via via trovava.

Finalmente un giorno vide, lontano lontano, un grande palazzo che luccicava; pareva un palazzo di cristallo. Vi si diresse sperando che fosse il palazzo di un mago. Man mano che si avvicinava risplendeva sempre di più: era veramente di cristallo. Girò intorno al palazzo per vedere se incontrava qualcuno, se c'erano segni di vita. Si accorse che quella grande costruzione non aveva nemmeno una porta, c'erano soltanto alcune finestre, ma molto in alto. Pareva che non ci fossero segni di vita, ma ecco che improvvisamente si aprì una finestra e si affacciò una ragazza bellissima: Giovanni non ne aveva mai viste di così belle.

La ragazza, appena vide Giovanni, gli disse:

«Cosa fate qui? Siete fortunato che il mago non è in casa, ma sappiate che tornerà presto. Se vi troverà qui, povero voi! E anche povera me! Ci man­gerà tutti e due in un boccone. Andatevene subito!».

«No no, non m'importa di niènte; venga pure il mago, venga chi vuoi venire, io non me ne andrò di qui se non mi darete da mangiare. Ho una fame che mi pare di morire. Meglio esser mangiati dal mago che morire di fame. Solo quando avrò mangiato qualcosa me ne andrò.»

Quando la ragazza sentì che l'unico modo per farlo andar via era quello di dargli qualcosa da mangiare, sciolse i suoi lunghissimi capelli e disse a Giovanni di aggrappatisi. Lei cominciò a tirare su su su... in quel modo riuscì a farlo arrivare al davanzale della finestra.

Con un salto Giovanni fu in casa.

C'era la tavola apparecchiata e un buon odore in tutta la stanza: la ragazza stava preparando da mangiare al mago che presto sarebbe rientrato.

«Darò a voi quello che avevo preparato per il mago e mi metterò subito a cuocere altra roba, perché se quando arriva non è tutto pronto, guai! Mangiate e fate presto!»

Il giovane si mise a mangiare e intanto faceva un sacco di domande alla ragazza. Si dissero come si chiamavano.

«Io sono Giovanni.»

«E io mi chiamo Bell'Aurora.»

La ragazza era tanto bella che Giovanni non si stancava di guardarla e, per poterla ammirare più a lungo, mangiava molto lentamente.

«Sbrigatevi», diceva lei, «e cercate di andarvene subito. Se arriva il mago sente odore di cristiano e siamo rovinati».

Ma sì! Giovanni non le dava retta. Quando ebbe finito di mangiare, caricò la pipa e si mise a fumare. Bell'Aurora sembrava sugli spilli.

Ecco che d'improvviso si sentì tremare il palazzo.

«Sta arrivando il mago», disse lei spaventata, «ora come faremo? Presto venite con me che cercherò di nascondervi.»

Lo accompagnò in una soffitta tutta ingombra di attrezzi.

«Qui il mago non viene mai», disse, «speriamo che non gli salti in mente di venirci stasera. Speriamo che non senta l'odore.»

Lo rinchiuse nella soffitta e scese in cucina. Stava scodellando la minestra quando si sentì un gran rumore: era il mago che era arrivato sul davanzale della finestra e stava entrando in casa. Era grande e grosso e con tanta barba nera. Appena fu in casa cominciò ad annusare:

«Dimmi chi è stato qui».

«Nessuno!»

«Come nessuno! Io sento odore di cristianin, o ce n'è o ce ne vuoi venir».

«Eh allora», disse lei, «forse qualcuno vorrà venire, perché io non ho visto nessuno fino ad ora. Su su! Mettiti a mangiare e non la far tanto lunga; se arriverà qualche cristiano lo vedrai. Secondo me è la troppa fame che ti fa sentire tutti gli odori; quando avrai mangiato non sentirai più nulla.» 

Il mago si lasciò convincere e non si mise a cercare nelle altre stanze. Sedette a tavola: mangiò e bevve, quindi si addormentò sulla tavola.

Quando il mago fu ben addormentato e russava, la Bell'Aurora, in punta di piedi, uscì dalla stanza e andò nella soffitta dove aveva rinchiuso Giovanni. «Presto! Ora il mago si è addormentato, puoi andartene senza farti vedere.» «No no, io non me ne vado.»

«Per carità!», supplicava la ragazza.

«Ma tu lo sai cosa si deve fare per ammazzare il mago?»

«Lo so sì, ma è una cosa troppo difficile... è proprio impossibile.» «Dimmelo! Dimmelo!»

«Il mago dorme sempre vestito e porta sempre un cinturone al quale tiene appesa la spada; si porta a letto anche la spada. Per ammazzare il mago bisogna prendere la sua spada e tagliarli la testa con quella. Ma non basta, perché in camera, da capo al letto, tiene una vescica: basta che il mago tocchi con una mano quella vescica che la testa tagliata ritorna al suo posto; e allora sì che sono guai!»

«Ora ci penso io», disse Giovanni, «tu vai a vedere se dorme ancora.»

Bell'Aurora scese in cucina e vide che il mago era ancora addormentato con la testa sul tavolo. Giovanni le era venuto dietro. Quando anche lui vide che il mago dormiva, disse alla ragazza:

«In questa posizione non mi riesce prendergli la spada. Bisogna che tu lo svegli e tu lo accompagni a letto; quando si sarà riaddormentato nel suo letto mi vieni a chiamare. Io torno nella soffitta».

Bell' Aurora si avvicinò al mago e cominciò a lisciargli i capelli, ad accarezzargli la barba... poi gli accostò la bocca all'orecchio egli sussurrò:

«Su padroncino! È bene andare a dormire a letto. Qui sei scomodo, non ti riposi...».

«Hai ragione», disse il mago, «ora vado a letto. Ma che puzzaccio di cristiano che sento stasera!»

«Deve essere il vento che porta quell'odore lì.»

Il mago se ne andò a letto. Lei gli corse subito dietro, gli rimboccò le coperte, gli fece qualche carezzina sui capelli e poi tornò in cucina. Ogni tanto però andava alla porta di camera per sentire se russava.

Appena lo sentì russare, entrò in camera e controllò che dormisse veramente, poi salì in soffitta per avvisare Giovanni.

Giovanni scese e disse alla ragazza:

«Tu vai vicino a lui e accarezzalo fino a quando non sarò riuscito a prendergli la spada, così, nel caso che si svegliasse, vede te e non si insospettisce. Quando avrò preso la spada, te ne potrai anche andare».

Bell'Aurora andò al capezzale del mago. Intanto Giovanni si era levato le scarpe per non far rumore. Piano piano arrivò al letto e afferrò la spada. Il mago non si accorse di nulla e continuava a russare. Giovanni fece cenno alla ragazza che ora poteva andarsene; poi con la spada staccò la vescica e la gettò giù dalla finestra che era ancora aperta. La vescica però tornò subito indietro e si riattaccò al suo posto. Allora Giovanni la staccò di nuovo e la gettò via, chiudendo subito la finestra. La vescica fu subito ai vetri, ma la finestra era chiusa e non poté rientrare.

A questo punto si avvicinò di nuovo al mago e, con un colpo secco di spada, gli staccò la testa. Il mago cominciò a cercare con le mani la vescica, ma la vescica non c'era. Dalla rabbia stritolò le sponde del letto... ma la vescica non poté trovarla. Si dibatté un bel pezzo e poi si accasciò sul letto. Era morto.

Bell'Aurora, quando vide che il mago era morto, saltò al collo di Giovanni e cominciò a baciarlo:

«Tu sia benedetto! Tu, sei il mio liberatore! Mi hai liberata dal mago che mi teneva prigioniera da tanto tempo. Ora però bisogna che tu mi aiuti a toglierlo di qui».

Lo presero e riuscirono a trascinarlo vicino alla finestra. Era pesantissimo.

Con un po' di fatica furono capaci di tirarlo giù dalla finestra.

La mattina seguente Giovanni si fece calare fuori dalle trecce di Bell'Aurora e scavò una fossa dove seppellì il mago.

Giovanni rimase alcuni giorni con la Bell'Aurora che si era innamorata di lui e che lo ricopriva di gentilezze. Gli raccontò tutta la sua vita, gli disse che era una principessa reale e che sarebbe stata contenta di sposarlo.

«Come sei stato capace a scendere qui nel mondo di sotto», gli diceva, «sarai capace anche di tornare nel mondo di sopra. Io verrò con te e ci sposeremo. Mio padre quando saprà che tu mi hai liberata, ti lascerà il regno».

«Ma non posso tornare su ora», rispondeva Giovanni, «è presto per me. Io devo restare quaggiù un anno e tre giorni. E poi il mio compito non è ancora finito quaggiù. Devo cercare gli altri maghi.»

«Sciagurato! Non lo fare! Io so che il mago che hai ammazzato ha un fratello quaggiù che è ferocissimo. Se ti trova quello, ti mangia subito. Tu morirai e io non potrò più tornare nel mondo di sopra.»

Bell'Aurora pianse e si disperò, ma Giovanni non tornò sopra le proprie decisioni. Le diceva:

«Lasciami partire; ti prometto che ripasserò di qui e ti porterò con me nel mondo di sopra. Non dubitare che tornerò, parola di principe!».

E una mattina, fra i pianti e la disperazione della ragazza, Giovanni si fece calare a terra e partì.

E riprese il suo viaggio. Cammina cammina cammina, camminò ancora un paio di mesi in quella sterminata prateria. Riprese a cibarsi di radici di paleo e a bere acqua, quando ne trovava.

Finalmente una mattina scorse, ma lontano lontano, un altro castello che luccicava più di quello di Bell'Aurora. Vi si diresse e, quando arrivò vicino, si accorse che era tutto d'argento: una vera meraviglia!

Il castello aveva un muro di cinta e un grande giardino; Giovanni entrò nel giardino attraverso un cancello: non c'era anima viva, ma il giardino era ben tenuto, quindi prima o poi qualcuno avrebbe dovuto presentarsi.

La porta del castello era chiusa, ma Giovanni si fece coraggio e bussò.

Pochi istanti più tardi si affacciò alla finestra una ragazza: se Bell'Aurora era bella, questa, al paragone, lo era cento volte di più. Giovanni, appena la vide, ne restò colpito e se ne innamorò. Le chiese di aprirgli, ma la ragazza gli rispose:

«No bel giovane, non posso aprire. Questo è il palazzo del mago e non posso aprire a nessuno; se arrivasse il mago e vi trovasse dentro, ci mangerebbe tutti e due. E questa è proprio l'ora in cui arriva: è quasi l'ora di cena. Andatevene via subito e alla svelta, e pregate di non incontrarlo per la strada».

«Ma io», insiste Giovanni, «non voglio restare nel castello, mi basta che mi facciate salire e che mi diate qualche cosa da mangiare. Son giorni e giorni che non mangio niente e non ce la faccio più. Vi prego, apritemi e fatemi la carità di un po' di cibo!»

La ragazza si lasciò intenerire e andò ad aprire la porta.

«Presto», gli disse, «venite su in cucina che vi darò qualcosa.»

Gli portò qualcosa da mangiare ed anche un bel fiasco di vino e lo incitava a mangiare alla svelta:

«Fate presto! Bisogna che andiate via, aspetto il mago!».

«No, non vado via; aspetterò il mago anch'io.»

La ragazza cominciò a disperarsi e fece di tutto per convincere Giovanni ad andarsene. Stavano discutendo quando, d'improvviso, sentirono un gran boato e il palazzo cominciò a scuotere come per il terremoto: era il mago che stava arrivando. Lei allora, tutta preoccupata, disse al giovanotto di seguirla. Lo condusse in un locale al pian terreno, una specie di stanza di sgombero dove il mago teneva gli attrezzi più strani ed inutili.

«Resterete qui fino a quando non tornerò a riprendervi. In questa stanza il mago non viene quasi mai, dovreste essere al sicuro.»

«Non dubitate», disse Giovanni, «che io di qui non mi muovo.»

La ragazza lo rinchiuse laggiù e tornò in cucina. Mentre stava apparecchiando la tavola, ecco che entrò il mago e cominciò subito ad arricciare il naso e adire:

«Sento puzza di cristianin, o ce n'è o ce ne vuoi venir».

«Io», disse la ragazza, «non ho visto nessuno.»

Ma il mago non era convinto e cominciò a frugare in tutte le stanze: andò nelle camere, nella soffitta e poi voleva scendere anche nei ripostigli del pian terreno: sentiva puzza di cristiano e voleva controllare ogni buco.

La ragazza quando lo vide scendere le scale, cominciò ad aver paura: se avesse scoperto il giovanotto, sarebbero stati guai seri. Cominciò a sorridergli, ad accarezzarlo, e intanto gli diceva:

«Ma no padroncino bello, qui non è venuto nessuno! Qui dei cristiani non ce n'è e non ce n'è venuti. Forse è perché avete fame che sentite tutti gli odori. O forse è il vento che è passato dalle parti dei cristiani e ora porta il loro puzzo».

Insomma con un po' di moine ed un po' di carezze, le riuscì calmare il mago. Lo fece tornare in cucina egli dette da mangiare. Quando ebbe mangiato e bevuto, era anche stanco... aveva girato tutto il giorno... si addormentò con la testa sul tavolo di cucina.

La ragazza, quando lo vide bene addormentato, corse subito alla stanza dove aveva rinchiuso Giovanni:

«Giovane! Presto! Bisogna che partiate subito. Ora si è addormentato e non vi può vedere. Ma fate presto! Non lo sapete che fra poco vi trovava? Ha voluto vedere tutte le stanze del palazzo; tra poco morivo dalla paura! Fate presto!»

«Ma non abbiate paura», fece lui, «io non ne ho. Piuttosto ditemi se sapete che ci sia un mezzo per far morire il mago.»

«Il mezzo ci sarebbe; ma chi ci riesce? È troppo difficile. Sapete, il mago va sempre a letto vestito e porta sempre un cinturone alla vita; in questo cinturone, che non si toglie mai di dosso, tiene nascosta una chiave. Questa chiave apre una porticina piccola piccola che è in camera sua, da capo al letto. La porticina racchiude una piccola nicchia dove si trova un cestello con della bambagia e, nascosto nella bambagia, un grosso uovo. Ecco, per far morire il mago, bisogna prendere questo uovo e spaccarglielo in fronte. Ma chi è capace di prendere la chiave che tiene nel cinturone? Ve l'ho detto: il mezzo ci sarebbe, ma è troppo difficile.»

«Non vi preoccupate», disse Giovanni, «voi accompagnate il mago a letto, copritelo per bene, rincalzategli le coperte e fate di tutto perché si addormenti di nuovo. Al resto ci penso io.»

La ragazza tornò in cucina e cominciò ad accarezzare il mago per svegliarlo dolcemente:

«Su padrone! Andatevene a letto. Qui siete scomodo e non vi riposate».

Riuscì a convincerlo. Lo accompagnò in camera, gli rincalzò per bene le coperte e aspettò che si addormentasse di nuovo. Poi andò a chiamare Giovanni, che si tolse le scarpe per non far rumore e andò in camera del mago.

Il mago russava; Giovanni con una mano teneva l'impugnatura della spada e con l'altra cercava di tirar giù le coperte per prendere la chiave nascosta nel cinturone. Ci riuscì. Aprì lo sportellino che era da capo al letto, frugò nel cestello e trovò l'uovo che gli aveva descritto la ragazza. Lo prese e andò ai piedi del letto; prese bene la mira e, con quanta forza aveva, lanciò l'uovo nella fronte del mago.

Il mago tirò un grido e saltò via dal letto: cadde a terra morto stecchito. La ragazza saltò al collo di Giovanni e cominciò a baciarlo:

«Tu sei il mio liberatore», diceva, «se tu non fossi arrivato io sarei rimasta qui prigioniera per tutta la vita.»

Poi aprirono la finestra e tirarono il corpo del mago nel giardino; Giovanni scavò una fossa e lo seppellì.

I due giovani rimasero insieme per alcuni giorni e si raccontarono le loro storie. La ragazza era una principessa che il mago aveva rapito alcuni anni addietro. Giovanni le promise che l'avrebbe riportata nel mondo di sopra. Lei avrebbe voluto andarsene subito, ma lui le disse che non poteva partire subito: la sua missione non era ancora compiuta e doveva restare ancora qualche mese laggiù, doveva cercare un altro mago.

Lei cominciò a piangere e a sgomentarsi:

«No, non te ne andare! Il mago che tu vuoi cercare è fratello di questo qui, ma è tanto più feroce e con lui non vincerai. Quello come ti vede ti mangia. Se tu parti io non ti rivedrò più».

La ragazza pianse e si disperò, ma Giovanni non si lasciò convincere: «Io non ho paura di nessuno», disse, «come ho ammazzato i primi due, ammazzerò anche il terzo. Sono venuto quaggiù per cercare il ladro che rubava i pomi d'oro dal giardino di mio padre, e non tornerò nel mondo di sopra fino a quando non lo avrò trovato. Potrebbe essere proprio il mago di cui tu hai tanta paura.»

Ma lei piangeva e continuava a dire:

«Se tu mi lasci qui, ti dimenticherai di me e io non ti vedrò mai più. Dovrò morire nel mondo di sotto, senza poter rivedere i miei genitori».

«Non ti disperare: questo palazzo è pieno di roba da mangiare, tu mangia e bevi e stai tranquilla. Ti prometto e ti giuro che, quando avrò ammazzato anche il terzo mago, passerò di qui e ti porterò con me nel mondo di sopra. Non posso promettere di sposarti, ma ho altri due fratelli, principi come me, vedrai che uno di loro ti prenderà per moglie.»

La salutò e, nonostante lei continuasse a piangere, partì per la prateria.

Cammina cammina cammina... camminò ancora un paio di mesi, sempre in mezzo a questa prateria che non finiva mai. I primi giorni aveva mangiato le buone cose che gli aveva dato la ragazza del secondo castello: pane, prosciutto, formaggi... Ma poi i viveri finirono e Giovanni fu di nuovo costretto a nutrirsi di radici di paleo e a bere acqua di sorgente, quando ne trovava.

Un giorno, era più di due mesi che camminava, vide in lontananza qualcosa che luccicava. Avrebbe voluto vedere di cosa si trattava, ma mandava bagliori tali che era impossibile: non si poteva fissare. Si diresse comunque da quella parte e poté rendersi conto che si trattava di un castello d'oro soltanto quando il sole tramontò e i bagliori diventarono più sopportabili alla vista umana. Era un castello tutto d'oro!

Cominciò a guardare intorno se c'era qualche essere vivente: non vide nessuno. Era stanco e pensò quindi di sdraiarsi nel giardino che circondava il castello. Stava quasi per addormentarsi, quando sentì aprire un finestra; si voltò e vide una donna così bella... ma così bella come non ne aveva mai viste. La sua bellezza superava di mille volte quella della ragazza del castello d'argento. Giovanni se ne innamorò subito. Si alzò in piedi e cercò di farsi vedere.

Appena la ragazza lo scorse, lo chiamò:

«Giovane! Andate via subito di lì! Fra pochi minuti arriva il padrone di questo castello; è il mago più potente e feroce del mondo di sotto. Se vi trova siete finito voi e me la passerò male anch'io, perché penserà che vi abbia fatto venire io».

«Non dubitate che me ne andrò, non voglio procurarvi noie. Vorrei però prima chiedervi un piacere: è tanti giorni che non mangio che radici d'erba, se aveste qualcosa da darmi...».

«Venite pure su, ma fate alla svelta.»

La ragazza gli aprì la porta del castello, lo fece passare in cucina e gli dette da mangiare. Quando il giovane ebbe finito di mangiare, lei gli disse:

«Ora andate vene e dimenticate di avermi vista».

«No, io non me ne vado. Aspetterò il vostro mago. Nascondetemi in qualche posto dove sapete che il mago non va mai.»

Lei avrebbe voluto insistere e convincere il giovane ad andarsene, ma proprio in quel momento si sentì il palazzo tremare.

«È il mago che sta arrivando. Siamo rovinati! Venite con me; a questo punto non posso che nascondervi.»

Lo accompagnò nei sotterranei del castello, in un locale senza finestre e ingombro di ogni sorta di attrezzi.

«Restate qui fino a quando non tornerò.»

«Non dubitate», rispose Giovanni, «che di qui non mi muovo.»

La ragazza tornò in cucina e si mise a preparare la cena al mago. Si sentì una gran soffiata: era il mago che entrava nel castello. Appena arrivato cominciò a brontolare:

«Sento odore di cristianin, o ce n'è o ce ne vuoi venir».

«Eh, allora vorranno venire», rispose la ragazza, «perché qui non ho visto nessuno.»

Ma il mago non le credette e cominciò a girare per il castello e a frugare in ogni angolo.

«Tu mi inganni», diceva, «sento il puzzo; da qualche parte ci deve essere un... Cristiano.»

«Ma no, ma no! Non c'è proprio nessuno. È perché avete tanta fame che sentite tutti gli odori. Su, mettetevi a tavola e mangiate; vedrete che dopo starete meglio.»

Il mago si mise a mangiare: aveva tanta fame e finì tutto quello che la ragazza aveva preparato. Si scolò anche un par di fiaschi di vino. Così bello satollo, si addormentò con la testa sul tavolino.

Allora la ragazza corse subito nei sotterranei e disse a Giovanni:

«Il mago si è addormentato, andate via prima che si risvegli».

«Non me ne voglio andare; voglio piuttosto che mi diciate se sapete come si può fare per ammazzare il mago.»

«Eh, povero voi! Il modo c'è, ma chi ci può riuscire? Sappiate che il mago va sempre a letto vestito e porta, attaccata alla cintura, la sua pistola. Non se ne separa mai. Per ammazzarlo bisognerebbe prendere la sua pistola e sparargli in fronte con quella, ma proprio in mezzo alla fronte, altrimenti non muore. E, se per caso si sbaglia il colpo, è la fine: in un boccone divora chi ha provato ad ammazzarlo.»

«Voi non vi preoccupate; cercate di farlo andare a letto e accarezzatelo un po' finché non si sarà addormentato di nuovo. Poi mi chiamerete e proverò a prendergli la pistola.»

La ragazza andò in cucina e cercò di convincere il mago che sarebbe stato più comodo a letto.

«Hai ragione», disse lui, «accompagnami perché devo aver bevuto un po' troppo».

Lei lo aiutò a entrare nel letto, lo coprì, gli rincalzò le coperte per bene e accostò la finestra. Quando lo sentì di nuovo russare andò da Giovanni:

«Se volete venire, ora dorme».

Giovanni salì le scale e passò dalla cucina; aveva ancora fame e si mise a mangiare. Poi andò nella camera del mago, che russava beato. Mentre la ragazza faceva finta di aggiustargli le coperte, Giovanni riuscì ad afferrare la pistola. Fece cenno alla ragazza di andarsene; non voleva che assistesse alla morte del mago. Prese la mira con attenzione e sparò. Centrata la fronte! Il mago fece un urlo, saltò in aria e poi cadde a terra: stecchito.

Subito venne la ragazza che si attaccò al collo di Giovanni baciandolo e dicendogli che era il suo liberatore.

Poi presero il mago e lo tirarono giù dalla finestra; Giovanni fece una fossa nella prateria e ce lo seppellì.

I due giovani, che ormai si erano innamorati, si raccontarono le loro storie. Anche la ragazza era una principessa: il mago l'aveva rapita ed era rimasta prigioniera nel mondo di sotto per parecchio tempo.

Nel castello d'oro c'erano intere sale piene di ogni ben di Dio: il mago voleva mangiar bene e non si faceva mancare mai nulla. Le cantine anche erano ben fornite. Giovanni e la bella del castello d'oro rimasero insieme parecchio tempo mangiando, bevendo e in grande felicità. Dovevano aspettare che fosse trascorso un anno e tre giorni da quando Giovanni era sceso nella caverna. Intanto facevano progetti per la loro vita futura. Diceva Giovanni:

«Ora, appena sarà trascorso il tempo necessario, tu verrai con me nel mondo di sopra e lassù ti sposerò. Però dovrò portare lassù due altre ragazze che ho liberato prima di te; tu non devi essere gelosa, perché io voglio te sola. Io ho due fratelli nel mondo di sopra, se lo vogliono, potranno sposarle loro».

I giorni trascorrevano lieti al castello d'oro: presto i due giovani sarebbero tornati di sopra.

Un giorno la ragazza portò Giovanni in quel sotterraneo dove lo aveva fatto nascondere la prima sera; aprì una piccola botola egli disse:

«Ora metti la testa lì dentro».

Giovanni obbedì e, quando tolse la testa, si accorse che i capelli gli erano diventati d'oro. Allora lei infilò nella botola i piedi e le scarpe le diventarono d'oro; si chinò e ci mise la testa: aveva le trecce d'oro. Giovanni, a questo punto, diventò assai curioso: avrebbe voluto vedere cosa c'era dentro la misteriosa botolina. Chiese alla ragazza se poteva procurargli un lume. Lei salì in cucina e di lì a poco tornò con una lanterna. Il giovanotto scese attraverso la botola e si ritrovò in una grande stanza buia: in un angolo della stanza c'era un enorme mucchio di pomi d'oro.

«Ecco», disse, «chi portava via i pomi d'oro dal giardino di mio padre! Era proprio questo mago qui. Ora sono contento. Ora ho veramente compiuto la mia missione.»

Prese alcuni di quei pomi e risalì attraverso la botolina.

I giorni volavano in compagnia della bella, e presto arrivò il momento di far partenza. Presero un cestello di pomi d'oro, chiusero bene il castello e si misero in cammino. Erano diretti verso il castello d'argento, ma la ragazza conosceva la strada e arrivarono in pochi giorni.

Arrivati che furono, bussarono alla porta e la bella del castello d'argento si affacciò alla finestra. Quando vide che Giovanni era in compagnia di un'altra donna, assai più bella di lei, fece un urlo e scomparve. Loro aspettarono un po', poi, vedendo che la ragazza non si rifaceva viva, entrarono nel castello per vedere cosa mai fosse successo. Trovarono la ragazza a terra, svenuta. Le prestarono soccorso e finalmente si riebbe e disse:

«Eh Giovanni! Lo sapevo! Te lo dicevo che se andavi via per me era finita ogni speranza! Ora certo sposerai lei e non me».

«Non te la prendere», fece Giovanni, «ora ti porto nel mondo di sopra, come ti avevo promesso. Lassù ho due fratelli e uno di loro certamente ti sposerà.»

A sentire così, la bella del castello d'argento si riconfortò un poco. Li fece accomodare, mentre lei preparava il pranzo. Quando ebbero mangiato, chiusero la porta del castello e, tutti e tre insieme, ripresero il cammino.

Ora Giovanni doveva passare a prendere Bell'Aurora, la ragazza del castello di cristallo.

Camminarono un bel po', ma le due ragazze conoscevano la strada e non ci misero due mesi come Giovanni venendo.

Arrivarono finalmente al castello di cristallo, ma non potevano bussare alla porta perché quel castello era senza porte. Allora si misero a girare intorno per vedere se c'era qualche finestra aperta. Dopo un po' che erano lì però sentirono aprire una finestra, allora Giovanni chiamò la Bell'Aurora che si affacciò. Quando però vide che Giovanni era in compagnia di altre due donne, tutte e due più belle di lei, si mise a piangere.

«Ma cos'hai», chiese Giovanni, «non sei contenta che sono tornato per portarti nel mondo di sopra?»

«Eh no, Giovanni! Io volevo che tu mi sposassi; volevo tornare nel mondo di sopra, ma per essere la tua sposa.»

«Non te la prendere: nel mondo di sopra io ho due fratelli, certamente uno di loro ti sposerà.»

A quelle parole Bell'Aurora si calmò un poco. Calò le sue bionde trecce e, uno per volta, li fece salire tutti e tre. Poi apparecchiò, preparò un bel pranzetto e tutti insieme mangiarono e bevvero.

Giovanni intanto calcolava il tempo che aveva ancora a disposizione: passato un anno e tre giorni doveva essere all'ingresso della caverna. Vide che avevano fatto abbastanza presto a giungere fino lì e calcolò che potevano trattenersi ancora per qualche giorno.

Rimasero tutti e quattro nel castello di cristallo raccontandosi le loro avventure. Quando Giovanni capì che era l'ora, ripresero il cammino.

Arrivarono all'ingresso della caverna proprio il giorno stabilito. Infatti vi trovarono il corbello legato alla fune: pronto per portarli al mondo di sopra; i fratelli erano stati di parola.

Giovanni allora decise che avrebbe mandato su per prima Bell'Aurora.

La mise nel corbello e poi dette uno strattone alla fune per far capire ai fratelli che potevano cominciare a tirar su.

E lassù, da sopra, tira tira tira... finalmente arrivò il corbello con questa bella ragazza. Appena la videro i due fratelli cominciarono a litigarsela:

«Questa è mia!».

«No, questa me la sposo io!»

Intanto tolsero dal corbello la ragazza che disse loro:

«Buttate giù il corbello e non vi litigate che di ragazze ce n'è ancora». Lei non disse altro e si mise lì da una parte, aspettando che anche gli altri tornassero al mondo di sopra. I fratelli calarono il corbello.

Quando il corbello fu di nuovo in fondo, Giovanni fece salire la ragazza del castello d'argento. Dette uno strattone alla fune e i fratelli tira tira tira... quando videro che anche quella volta c'era una ragazza e che era ancora più bella della prima, cominciarono a litigarsi di nuovo.

«Allora», disse il maggiore, «tu sposerai la prima e io mi prendo questa qui». «No no», rispose l'altro, «la prima la volevi tu, prenditela! Io mi sposerò questa». La bella del castello d'argento uscì dal corbello e disse loro di non litigarsi: che buttassero ancora il corbello che ce n'era ancora.

E loro lo buttarono giù di nuovo. Cala cala cala... arrivò al fondo.

«Ora tocca a te», disse Giovanni, «ma ho paura che i miei fratelli mi tradiranno e quando ti avranno vista così bella, non vorranno tirar su anche me.»

«Io spero che le tue preoccupazioni siano infondate, ma se veramente i tuoi fratelli si comportassero come tu prevedi, sappi che io ti resterò fedele e che non sposerò nessuno se non chi mi porterà una treccia come questa e una scarpetta d'oro come questa.»

La bella del castello d'oro si tagliò una treccia e si tolse una delle sue scarpe e le consegnò a Giovanni. Lui prese la treccia e la scarpa, le avvolse in un fazzoletto e se lo mise alla cintura. Poi aiutò la ragazza a entrare nel corbello, dette uno strattone alla fune e il corbello cominciò a salire.

I due fratelli, all'ingresso della caverna, tira tira tira... finalmente videro arrivare una donna che era ancora più bella delle altre. Allora sì che litigarono davvero! Entrambi volevano quella, e per poco non vennero alle mani. Ma la bella del castello d'oro disse che dovevano buttare giù di nuovo il corbello che c'era ancora qualcuno che doveva salire.

Il corbello fu calato e arrivò in fondo. Giovanni però, che non si fidava dei fratelli, cominciò a pensare:

"Se io entro nel corbello, i miei fratelli tirano su, ma quando vedono che non è una ragazza, tagliano la fune e mi fanno sfracellare in questa buca".

Così decise che non sarebbe entrato lui, ma avrebbe messo nel corbello alcuni sassi per un peso equivalente al suo. Cercò i sassi, li sistemò nel corbello e, come sempre, dette uno strattone alla fune. Il corbello cominciò a salire: sali sali sali... ma a un certo punto fu tagliata la fune e il corbello precipitò nella caverna. I due disonesti non avevano nemmeno aspettato di vedere cosa ci fosse dentro il corbello.

Giovanni pensò che aveva fatto bene a non cercar di salire. Però ora era laggiù, solo, nel mondo di sotto. Come avrebbe mai fatto a risalire? E che ne sarebbe stato della sua bella? Gli prese la disperazione.

Ma lasciamo un po' Giovanni e vediamo cosa succede alle tre ragazze.

I fratelli di Giovanni, dopo che ebbero tagliata la fune, s'incamminarono verso la reggia con le tre ragazze.

Quando arrivarono, subito il padre chiese di Giovanni. Loro risposero che Giovanni era morto nel mondo di sotto, ma che aveva mandato su tre belle ragazze. Il padre però non volle credere a quella storia e disse loro:

«Io temo che mi raccontiate delle menzogne; com'è possibile che abbia mandato su le tre ragazze se è morto. Non vi credo e vi dico subito - parola di re - che non permetterò che sposiate quelle ragazze fino a quando Giovanni non sarà tornato».

Ma i fratelli dicevano:

«Aspettalo che ritorna! Vedrai che prima o poi ce le lascerai sposare».

E intanto si litigavano fra di loro, perché entrambi volevano la ragazza più bella: la bella del castello d'oro.

Torniamo intanto da Giovanni che era rimasto in fondo alla caverna a piangere e a disperarsi.

Non sapeva cosa fare, non sapeva dove andare. A un certo punto gli tornò in mente la capanna della vecchietta: la prima persona che aveva incontrato nel mondo di sotto. Era il posto più vicino e, affamato com'era, sperava che la vecchia gli offrisse una delle sue focaccine d'erbe.

S'incamminò per la prateria e arrivò alla capanna con lo steccato. Scavalcò lo steccato e bussò alla porta. La porta si aprì e la vecchietta, appena lo vide gli disse:

«O buon giovane, siete tornato? Cosa vi è successo?»

«Sono tornato perché i miei fratelli mi hanno tradito. Hanno tagliato la fune e non mi hanno fatto tornare nel mondo di sopra.»

«Lo sapevo che avrebbero fatto così. Ma non vi disperate, in qualche modo cercherò di aiutarvi. Intanto vi preparerò una focaccina, perché penso che abbiate parecchia fame.»

«Eh, ho fame davvero!».

La vecchia preparò una focaccia e ne mangiarono metà ciascuno.

Poi prese a dire:

«Io conosco un modo per farvi tornare nel mondo di sopra. Io comando a un'aquila che potrebbe portarvici, però voi dovete ascoltarmi bene e fare tutto quello che vi dirò».

«E perché non lo dovrei fare? Dite pure.»

«Allora voi dovete andare dall'altra parte di questa capanna, troverete una porticina. Spingetela che è accostata; dentro troverete un bue. Bisogna che lo prendiate, lo portiate fuori e lo ammazziate. Poi bisogna farlo a pezzi.»

Giovanni andò dove gli aveva detto la vecchia, trovò il bue, lo portò fuori e, con la sua spada, lo ammazzò e lo tagliò a pezzi. Fece un gran mucchio di carne lì, davanti alla capanna. Era un bue enorme.

La vecchia, quando vide che aveva eseguito i suoi ordini, prese un corno e cominciò a suonare. Subito arrivò un'aquila che si posò vicino alla capanna. Era un'aquila grandissima, Giovanni non ne aveva mai viste di simili.

«Ora», disse la vecchia, «dovete caricare tutta questa carne sulla schiena dell'aquila, proprio come fosse una bestia da soma. Poi anche voi dovete salire a cavallo dell'aquila. Io le comanderò che vi riporti nel mondo di sopra. Ma attento eh! Man mano che salirà, l'aquila farà un verso, farà: bah! Ogni volta che farà quel verso, voi dovrete dargli un pezzo di carne. Ma attenzione eh! Bisogna essere pronti a dargli un pezzo di carne, altrimenti l'aquila, anziché salire, discende e torna nel mondo di sotto.»

«Non pensate, che farò come mi avete detto.»

Giovanni caricò sull'aquila tutta la carne del bue e poi salì anche lui sulla groppa dell'uccello. Salutò e ringraziò tanto la vecchia che disse:

«Aquila, ora vai! Porta questo giovane su per la caverna, fino al mondo di sopra».

L'aquila partì. Non era ancora arrivata alla caverna che cominciò a fare: bah! E Giovanni subito le porse un pezzo di carne. Arrivata che fu alla caverna, l'aquila cominciò a salire, ma ogni giro che faceva, diceva bah! E Giovanni le dava la carne. Volò per un pezzo: sempre più in alto, sempre più in alto... la caverna era ben profonda! Ce ne voleva prima di arrivare al mondo di sopra. E l'aquila cominciò a fare il suo verso sempre più spesso: ogni mezzo giro. La carne calava rapidamente. Giovanni cominciava a essere preoccupato che non ce ne fosse abbastanza.

Per risparmiare, cominciò a tagliare con la spada i pezzi della carne e a dargliene di più piccoli, ma era del tutto inutile quell'espediente, perché l'aquila faceva il suo verso più spesso. Più piccolo era il pezzo di carne, più presto l'aquila diceva bah!

Vola vola vola, su su su... arrivarono a un punto che si cominciava a vedere un po' di luce. Giovanni se ne sarebbe rallegrato, se non avesse visto che la carne stava per finire. C'era il rischio che l'aquila tornasse in fondo alla caverna proprio mentre stavano per arrivare al mondo di sopra.

C'erano ormai più due giri, quando la carne finì. Giovanni non stette a pensarci troppo: prese la spada e si tagliò un polpaccio. Tale era la paura di precipitare di nuovo in fondo alla caverna che nemmeno sentì il dolore.

Mancava soltanto un giro... L'aquila fece di nuovo: bah! E Giovanni si tagliò l'altro polpaccio e lo porse all'aquila.

Finalmente furono in cima: al mondo di sopra.

L'aquila posò a terra il giovane. Ma il poveretto non poteva reggersi in piedi e cadde stramazzato al suolo. Si era rovinato tagliandosi i polpacci.

Cominciò a piangere.

«Cosa m'importa», diceva, «di essere tornato nel mondo di sopra? Non potrò più camminare. Sono un uomo rovinato per sempre.»

L'aquila, che stava riposandosi lì vicino, lo sentì lamentarsi e intervenne:

«Ora capisco... È per quello che l'ultima carne che mi davi aveva un sapore così strano! Era la tua carne. Ma non te la devi prendere; vedrò di renderti i tuoi polpacci».

Detto questo, l'aquila si appartò e rigettò i polpacci di Giovanni. Poi li prese delicatamente col becco e li rimise alloro posto. Giovanni riebbe le sue gambe, belle e sane come prima. Non si conosceva nemmeno dove erano stati riattaccati i polpacci.

Il giovane si sentì rinascere e non smetteva più di ringraziare l'aquila che, salutato Giovanni, scomparve nella caverna.

Ora Giovanni doveva pensare il da farsi. Immaginava che i fratelli avessero sparso la voce che era morto, e non voleva tornare subito a casa.

Pensò di andare in città senza farsi riconoscere da nessuno, neanche dalla bella del castello d'oro; ma i suoi capelli d'oro l'avrebbero potuto tradire: certamente la sua promessa sposa l'avrebbe riconosciuto dai capelli.

Allora prese un fazzoletto, se lo legò alla testa e sopra ci mise il cappello. A chi gli avesse chiesto il perché di quella strana acconciatura, avrebbe risposto che aveva la tigna.

Arrivato in città, invece di andare alla reggia, si cercò una casetta in affitto e mise su una piccola bottega di orefice. La bottega era proprio in un angolo della piazza centrale della città.

In una posizione così centrale, presto cominciò a ricevere la visita di clienti che avrebbero voluto spille, collane, braccialetti... ma lui non aveva il mestiere e non sapeva far niente, così rimandava indietro tutti i clienti, ora con una scusa e ora con l'altra.

Intanto i suoi fratelli non facevano che litigarsi a causa delle tre ragazze. Il fratello maggiore, proprio perché era il maggiore, ebbe la meglio: avrebbe sposato lui la più bella delle tre, la ragazza del castello d'oro. A lei quell'uomo non piaceva per niente e aspettava in cuor suo il ritorno di Giovanni. Ma non poteva farsi vedere così ostinata. Disse allora:

«Io ti sposerò soltanto quando tu mi avrai portato una scarpa d'oro come questa e una treccia d'oro uguale alla mia. Io ho una sola scarpa e una sola treccia: colui che mi porterà le compagne sarà il mio sposo».

Il vecchio re, che ancora sperava nel ritorno del figlio, fu contento che la ragazza avesse richiesto una cosa così difficile; lui, povero vecchio, non avrebbe voluto che i figli maggiori si sposassero prima del ritorno di Giovanni, ma loro avevano tanto insistito e minacciato che aveva dovuto accondiscendere. Così dovette andare nel tesoro e dare al figlio maggiore un bel po' di oro; il giovanotto era deciso a girare anche tutto il regno, finché non avesse trovato un orefice capace di confezionare una treccia e una scarpa come quelle della ragazza.

Si era fatto dare da lei scarpa e treccia che dovevano servire da modello. E cominciò a girare alla ricerca di un orefice che gli garantisse due manufatti del tutto uguali ai modelli.

Di artigiani disposti a provare ne trovò parecchi, ma nessuno fu capace di uguagliare i modelli. Andò da tutti gli orefici della città: niente.

Andò anche nelle città vicine, ma tutto fu inutile. Cominciava a disperare, quando gli venne in mente che non aveva provato ad andare nella botteguccia della piazza principale, quella nell'angolo. Veramente ci aveva pensato, ma vedendola così piccola e così mal messa aveva pensato di non provare nemmeno, per non perdere tempo. Ora però era deciso a tentare anche quella carta.

Entrò nella botteguccia, e quando la vide così squallida, pensò che il ten­tativo sarebbe stato vano. Comunque volle provare. Mostrò all'orefice scarpa e treccia egli chiese se fosse stato capace di fabbricarne di uguali, perfettamente uguali.

«Certo che sono capace», disse l'orefice, «si fidi di me.»

Il principe allora gli lasciò i modelli e un sacchetto di monete d'oro per la fusione. Poi chiese all'artigiano quando sarebbe potuto passare per ritirare il lavoro.

«Venga pure domani mattina. È un lavoro che m'interessa e comincerò subito; se riuscirò a star sveglio stanotte, domattina sarà tutto pronto.»

Il principe se ne andò, ma non aveva molte speranze.

Giovanni mise via il sacchetto di monete e prese treccia e scarpa che aveva ancora legate alla cintura. Le lucido per bene e le mise in vetrina insieme ai modelli.

La mattina seguente il principe prese una delle carrozze più belle e andò nella piazza. Quando fu davanti alla botteguccia, vide in vetrina le due trecce d'oro e le scarpe. Che meraviglia! Le due trecce erano identiche fra loro e così le scarpette.

Meravigliato e felice entrò nella bottega:

«Ho visto la vetrina», disse, «siete stato proprio bravo! Avete fatto proprio quello che desideravo. Meritate una buona ricompensa».

«Non m'importa della ricompensa, io voglio un'altra cosa...»

«E cosa vorreste?»

«Voglio venire io a provare le scarpe alla donna che le dovrà portare.» «Ma certo! Se è soltanto questo che volete, non ci sono problemi. Anzi, venite subito!».

Giovanni chiuse la sua botteguccia e salì in carrozza col principe. Arrivati che furono al palazzo reale, salirono in una sala dove erano tutte e tre le ragazze del mondo di sotto.

Appena lo videro con quel fazzoletto sotto il cappello, Bell'Aurora e la ragazza del palazzo d'argento cominciarono a ridere, tanto gli parve ridicolo. L'altra giovane invece lo riconobbe subito e stette zitta.

«Cosa c'è da ridere?», chiese Giovanni.

«Perché mai portate quel buffo fazzoletto sotto il cappello?»

«Perché ho la tigna.»

Ma ecco che si fece avanti la bella del castello d'oro. Afferrò il fazzoletto di Giovanni e glielo strappò di testa.

«Sì», disse, «guardate com'è la sua tigna!»

Aveva i capelli d'oro.

In quel momento tutti riconobbero Giovanni. La bella del castello d'oro gli saltò al collo e cominciò a baciarselo. Poi lo trascinò nella sala del trono, davanti al re.

«Ecco», disse, «questo è il mio sposo: è lui che ci ha liberate».

Il re, quando vide che era Giovanni, non stava più in sé dalla contentezza.

Volle sapere da lui tutta la storia e quando l'ebbe sentita disse:

«Tu sposerai la ragazza più bella e, se vuoi, puoi ordinare una pena ben severa per i tuoi fratelli traditori».

«No», disse Giovanni, «non voglio che abbiano alcuna pena; mi basta di avere la mia sposa e la vostra benedizione. I miei fratelli, se vorranno, potranno sposare le altre due ragazze. È giusto che anche quelle abbiano un marito: glielo avevo promesso».

Fecero le nozze, dettero una gran festa, mangiarono e bevvero tutti e... forse saranno ancora là che si divertono.

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