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rubrica informativa che pubblica un post , piu o meno integralmente , preso da un blog in Italiano . le caratteristiche dei post presentati sono 2 devono essere esaustivi e fornire fonti su quanto postato, infine e cosa più importante di tutti, devono attrarre la mia attenzione


a cura di: A.S.S:M.
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Terremoto Emilia Romagna: coinvolte più faglie del sistema sismogenetico ferrarese, si interrompe un lungo periodo di quiete sismica che durava dal 1574


La mappa geologica dove vengono rappresentate le varie faglie e i sistemi sismogenetici che attraversano la pianura Padana. Si nota il sistema di faglie nell'area ferrarese
Oltre ai lutti, all’enorme mole di danni e al grave sfregio apportato al patrimonio artistico e architettonico, il forte terremoto che nella giornata di ieri ha scosso tutta la bassa pianura emiliana ha spiazzato gli stessi sismologi e geologi. Difatti il sisma, stimato con una magnitudo approssimativa sui 5.9 Richter, che alle 04:02 AM di ieri si è localizzato vicino il confine fra le province di Ferrara e Modena è avvenuto su una zona ritenuta a basso rischio sismico. La distribuzione spaziale dei danni, indotta dalla bassa profondità delle scosse (6-10 km), è stata localmente amplificata dai terreni di tipo alluvionale (il fenomeno dell‘amplificazione sismica). In genere, le onde sismiche, prodotte da un sisma di grande potenziale, quando incontrano dei terreni soffici, tipo i suoli alluvionali, tendono a rallentare la loro velocità di propagazione. Tale rallentamento conduce necessariamente ad un effetto di compensazione energetica, la quale si traduce in un notevole aumento dell’ampiezza, ossia una maggiore accelerazione del terreno che da luogo al cosiddetto fenomeno dell’amplificazione sismica. Ciò comporta un maggiore scuotimento del terreno che può produrre dei danni davvero significativi agli edifici sovrastanti, anche in presenza di un terremoto non particolarmente forte.
L’epicentro di questo evento tellurico, che creerà parecchi dibattiti dentro la comunità scientifica italiana, si è posizionato a soli 20 chilometri più a nord della zona a pericolosità sismica media dell’Appennino Emiliano. Negli ultimi anni la zona non è stata soggetta ad una attività sismica particolarmente intensa, con fenomeni scarsi e sporadici, meno che negli ultimi mesi, allorquando si è registrata una intensificazione dell’attività tellurica. Nessun legame con le scosse avvenute lo scorso Gennaio nel reggiano, ma c’è una probabilmente connessione con una scossa di magnitudo 4.5 dello scorso anno. Bisogna anche puntualizzare che l’Emilia/Romagna è a tutti gli effetti una regione sismica, tanto che nei secoli scorsi è stata interessata da vari episodi sismici, anche di moderata o forte intensità. Solo che gran parte di queste sequenze sismiche si sono sempre localizzata lungo l’area appenninica o sub-appenninica, tra Romagna ed Emilia, li dove scorrono vari sistemi sismogenetici, ben conosciuti da tempo e catalogati nella mappa del rischio sismico. Stavolta l’epicentro si è localizzato proprio nel cuore della pianura Emiliana, tra le città di Ferrara e Bologna, in un’area caratterizzata da terreni di tipo alluvionali derivati dai depositi fluviali lasciati dai grandi bacini idrografici che attraversano la bassa pianura Padana. Un evento davvero inusuale per questo lembo del “bel paese“. Bisogna pure tenere in considerazione che in Italia siamo riusciti a creare l’archivio dei terremoti storici più completo del pianeta grazie alla presenza di una vasta mole di documenti e reperti archeologi risalenti in età molto antica dal periodo della “Magna Grecia”.

L'epicentro del grande terremoto che ha scosso l'Emilia/Romagna
La presenza di grosse civiltà, come i greci e i romani, oggi ha permesso agli studiosi italiani di poter completare la lunga lista dei terremoti più violenti che si sono abbattuti nel nostro paese negli ultimi 2000 anni. Ciò ha anche favorito l’individuazione delle principali sorgenti sismogenetiche sparse per il bel paese in grado di dare vita a terremoti particolarmente energetici. Finora nessun paese del mondo è stato in grado di creare un archivio dei terremoti storici più completo di quello italiano. Purtroppo però anche gli archivi possono includere delle lacune di dati che possono essere tralasciate pure in letteratura. Se si prende in esame la carta geologica della pianura Padana, dove vengono rappresentate le varie faglie e i sistemi sismogenetici riconosciuti dai sismologi, si evidenziano dei particolari molto interessanti sul profilo geologico dell’intera area. L’epicentro del grande sisma emiliano sarebbe localizzato lungo la ramificazione più settentrionale della faglia ferrarese, che rappresenta la prosecuzione verso la pianura Padana di quel complesso sistema di faglia che dalle Marche e dalla Romagna risale l’area costiera adriatica, progredendo verso nord con varie sorgenti sismogenetiche che negli ultimi secoli si sono rese responsabili di decine di grandi terremoti, tra le Marche e il riminese, con una magnitudo stimata anche superiore rispetto il terremoto di ieri, sopra i 6.0 Richter.
Non per caso l’area romagnola a sud di Ravenna è già stata classificata nella categoria di rischio superiore, a scapito della parte più interna, quella che va verso il ferrarese, che forse è stata un po’ sottovalutata per l’assenza di importanti sequenze sismiche nell’archivio storico, a parte degli eventi isolati che hanno causato anche dei locali danneggiamenti. L’ultima testimonianza di un sisma di forte intensità nel ferrarese risale all’anno 1570. Sulla base delle descrizioni storiche e delle cronache locali del tempo si è dedotto che gli effetti possano essere stati confrontabili a quelli dell’ottavo grado della scala Mercalli. Pare che fra il Novembre 1570 e la fine del 1574 la città di Ferrara e i territori limitrofi si trovarono nell’area epicentrale di una lunga e forte sequenza sismica, caratterizzata da oltre 2000 scosse, concentrate soprattutto fra il Novembre 1570 e il Febbraio 1571. Circa il 40% delle abitazioni fu danneggiato, oltre a quasi tutti i maggiori edifici pubblici. Anche le chiese rimasero segnate da crolli parziali, lesioni, sconnessioni delle pareti portanti, gravi dissesti. Nel corso del 1571 sul terremoto di Ferrara furono scritti almeno sei trattati, quattro dei quali pubblicati, gli altri due rimasti inediti. Sempre in quel periodo qualche luminare oso affermare che i sismi ferraresi dovessero essere messi in relazione alle opere di bonifica di ampie aree del Ducato, che prosciugando il terreno circostante la città avevano causato un profondo squilibrio ambientale, favorendo l’accadere del terremoto.
Insomma questa zona non si può certo ritenere cosi tranquilla dal punto di vista sismico, differentemente da quanto si pensava prima del forte sisma di ieri. Inoltre la disposizione delle centinaia di repliche che hanno fatto seguito alla scossa principale delle 04:02 AM si allinea in un perfetto posizionamento est-ovest, fra le province di Ferrara e Modena. Ciò ci lascia dedurre che i piani di faglia responsabili di questo forte terremoto siano disposti al di sotto della pianura emiliana, fra le province di Ferrara e Modena, con un asse est-ovest che rappresenterebbe la prosecuzione del sistema sismogenetico ferrarese, responsabile di tutti gli eventi sismici che hanno colpito quest’area nei vari tempi storici. Una cosa che sembra certa è che siano più di una le faglie coinvolte dato che una singola faglia ha un’estensione di circa 10 chilometri (troppo poco per un terremoto da 5.9 Richter), mentre il terremoto di ieri si è esteso per 30-40 chilometri almeno.

Il fenomeno dell'amplificazione sismica sui terreni alluvionali
In sostanza possiamo dire che il terremoto di ieri ha messo fine al lunghissimo silenzio sismico che imperava dal 1574 ad oggi, scaricando tutta l‘energia accumulata durante questi ultimi secoli di quiete sismica che ha permesso lo sviluppo di estese deformazioni crostali. Ora è iniziato un nuovo ciclo sismico che nessuno, per ora, può prevedere, soprattutto per quel che concerne la durata della sequenza. Nel periodo 1570-1574 la crisi sismica ferrarese imperversò per ben 4 anni, ma non è detto che accada la stessa cosa anche stavolta. Di sicuro, dopo una scossa cosi intensa e il coinvolgimento di più faglie legate al sistema ferrarese, le repliche andranno avanti senza sosta durante le prossime settimane e i prossimi mesi. Alcune potranno essere superiori ai 4.0-4.5 Richter, ma nessuna di queste dovrebbe essere in grado di eguagliare o superare quella principale.
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La scienza e l’anti-scienza tra teorie del complotto, bufale e suggestioni


Il riscaldamento del mare che in alcuni anni avviene nella fascia dell’Oceano Pacifico, davanti alle coste dell’ Ecuador, noto con il nome di “El Niño”, è un fenomeno che interessa milioni di persone nell’America del sud e, forse, in tutto il mondo. Esso provoca una drastica diminuzione della pescosità in quella che è considerata la zona più pescosa del mondo e quindi una grave carestia per le persone che vivono di pesca.
Il nome El Niño deriva dalla lingua spagnola e significa “il bimbo”. Già due secoli fa, i pescatori peruviani avevano notato che a volte il mare era meno pescoso, soprattutto nel periodo di Natale, per cui il fenomeno veniva collegato alla nascita di Gesù bambino, quasi una invocazione a risparmiare ai pescatori questa disgrazia. Inoltre avevano notato che in tutti questi episodi di bassa pescosità, il mare era notevolmente più caldo del solito. Gli abitanti di quelle regioni parlavano anche di un fenomeno opposto, meno intenso ma con la stessa ricorrenza, che per analogia viene detto “La Niña”, che significa “la bimba”. In queste occasioni la pescosità del mare aumentava.
Fino agli inizi del ‘900, il fenomeno era considerato solamente una drastica diminuzione della pescosità del mare, legato forse alle correnti marine, ma non si pensava che la sua origine risiedesse nell’atmosfera. Il Niño quindi era visto esclusivamente come un fenomeno economico e sociale.
Grazie agli studi di insigni meteorologi, è stata scoperta la causa della sua formazione e si è messo in risalto che, dal punto di vista scientifico, esso non riguarda solamente il mare, ma è un fenomeno globale, che coinvolge la coppia “oceano e atmosfera”.
Più precisamente la parte del fenomeno riguardante l’oceano è chiamato El Niño, ed è una variazione periodica della temperatura dell’Oceano Pacifico orientale.
La parte del fenomeno riguardante l’atmosfera è invece chiamata Oscillazione Meridionale. Tale nome è dovuto alle oscillazioni, che si possono notare facendo delle medie mensili o stagionali, della differenza tra la pressione atmosferica misurata su delle stazioni poste ai bordi opposti dell’Oceano.
Nel 1923, Sir Gilbert Thomas Walker, cominciò a fare degli studi sulle misure della pressione rilevate a Tahiti (Oceania), che si trova nella parte centrale dell’Oceano Pacifico  e quelle rilevate a Darwin (Australia), nella zona occidentale dello stesso Oceano. Inizialmente Walker notò solamente che tali oscillazioni erano fortemente correlate con le variazioni annuali di piovosità nelle colonie inglesi dell’India e del Pacifico.
Successivamente egli elaborò anche un modello matematico che rendeva conto del fenomeno fisico da lui scoperto e che in suo onore  prese il nome di “circolazione di Walker”. Poiché a periodi di alta pressione corrisponde in media una minore piovosità e viceversa, l’ Oscillazione Meridionale può essere la causa dei periodi di siccità  o delle alluvioni che periodicamente si verificano in America Centrale e in Indonesia.
Fu solo nel 1969 che Jacob Bjerknes, allora Capo del Dipartimento di Meteorologia dell’Università della California a Los Angeles (UCLA), propose una teoria che interpretava il Niño come un fenomeno globale, mettendolo in relazione all’Oscillazione Meridionale (in Inglese Southern Oscillation. SO).
Da allora, il termine scientifico più corretto per descrivere il fenomeno nel suo insieme è dunque ENSO, combinazione di El Niño e Southern Oscillation, anche se oggi ENSO e El Niño sono utilizzati indifferentemente come sinonimi anche all’interno della comunità scientifica.
Fin qui la spiegazione scientifica, data soprattutto dai meteorologi, tratta dal libro “L’Anno del Niño”, di Alfio Giuffrida: un romanzo ideato per diffondere la meteorologia nella casa di tutti gli italiani. Esso è congeniato in modo da avere una trama avvincente, in cui due coppie di fidanzati vivono momenti drammatici in uno scenario da favola quale può essere la foresta amazzonica. In tale conteso è inserita la spiegazione scientifica del fenomeno, scritta in forma semplice, alla portata di tutti.
Ma a fianco alla spiegazione scientifica, nel mondo ne circola un’altra, non accettata dalle persone di scienza, ma ideata da un gruppo di giornalisti che aveva fatto l’ipotesi che il fenomeno del Niño potesse essere collegato alla “teoria del complotto”, un insieme di ipotesi secondo le quali i maggiori eventi che si verificavano sulla Terra potevano essere provocati “ad hoc” dalle maggiori potenze con lo scopo di recare gravi danni alla parte avversaria.
Pur non avendo alcun fondamento scientifico, tale teoria aveva avuto molti seguaci nei primi anni ’70. In quel periodo tutti si sentivano esperti sugli argomenti più complessi, forti delle discussioni che si facevano a scuola durante le occupazioni dell’istituto, quando i più facinorosi, millantandosi “intellettuali”, si inventavano le ipotesi più strane, ne parlavano nelle “assemblee degli studenti” atteggiandosi a professoroni, e tutti li ascoltavano, credevano alle loro belle parole e ne sfornavano versioni sempre più sofisticate e colorite, sentendosi a loro volta dei professori. Erano i postumi del ’68, gli anni che gran parte dei ragazzi dell’epoca ricordano come i più belli della loro vita, forse perché si dicevano le cose spensieratamente, senza verificarle o ragionarci sopra. Così, in quel periodo, era andata in voga la teoria del complotto (o della cospirazione), ovvero una teoria che attribuisce la causa ultima di un evento o di una catena di eventi (in genere politici, sociali o naturali) ad un complotto o cospirazione.
Il termine include un’ampia classe di teorie, dall’avvistamento degli UFO, ai segreti della crocifissione, alle collusioni tra i politici di tutto il mondo. Una enorme sequenza di teorie, con un’ampia gamma di plausibilità, alcune riconosciute attendibili e dimostratesi fondate, altre estreme ed altamente improbabili.
Secondo un gruppo di giornalisti, il 4 febbraio del 1983 sarebbe stato registrato un forte flusso di “onde a bassissima frequenza”, inviate dagli americani, che sarebbero entrate in contatto con “onde stazionarie” emesse dai sovietici. Ciò avrebbe provocato il Niño del 1982-833, che portò forte siccità nel Sahel e in Australia e piogge diluviali in Perù. Il tutto, secondo loro faceva parte di una strategia iniziata al tempo di Lenin, che aveva lo scopo di riscaldare il clima della Siberia per svilupparvi delle coltivazioni.
Anche questo brano è tratto dal libro “L’Anno del Niño”, di Alfio Giuffrida.
Il fenomeno del Niño si presenta in modo ricorrente, pressappoco ogni cinque anni, tuttavia gli episodi precedenti e successivi a quello del 1982-83, non hanno avuto analoghe spiegazioni tra i sostenitori della teoria del complotto, inoltre la pagina di Wikipedia da cui erano state tratte le notizie relative alla teoria del complotto nel 2010, oggi risulta modificata e non riporta più tali informazioni.

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Scoperto il più antico calendario Maya: è una stanza dipinta in un tempio a Xultun, in Guatemala
di Peppe Caridi


Il calendario Maya
Arriva proprio nel 2012, l’anno della “profezia”, la scoperta del piu’ antico calendario Maya: e’ una stanza dipinta all’interno di un tempio scoperta nel complesso archeologico di Xultun in Guatemala. La scoperta e’ stata annunciata su Science da un gruppo coordinato dall’archeologo William Saturno della Boston University al quale ha partecipato anche l’italiano Franco Rossi della stessa universita’. I dipinti, che raffigurano figure umane in uniformi nere e cicli lunari e planetari, risalgono al nono secolo dopo Cristo e sono molto piu’ antichi dei Codici Maya, risalenti al periodo compreso fra 1300 e 1500, e le cui presunte previsioni hanno fatto molto discutere. Gran parte della sala e’ stata danneggiata dai saccheggiatori ma diverse figure umane e le annotazioni numeriche dei cicli astronomici si sono conservati molto bene. Le annotazioni sulle pareti sembrano rappresentare i vari cicli del calendario Maya: il calendario cerimoniale di 260 giorni; il calendario solare di 365 giorni; il ciclo di 584 giorni del pianeta Venere e il ciclo di 780 giorni di Marte.
Secondo i ricercatori quella ritrovata potrebbe essere anche la stanza di uno scriba: ”Per la prima volta si arriva a vedere quelle che potrebbero essere le annotazioni tenute da uno scriba, il cui compito era quello di essere il custode dei ‘documenti’ di una comunita’ Maya” osserva Saturno. Gli archeologi sottolineano che fra gli obiettivi dei custodi del calendario Maya, e’ cercare l’armonia tra gli eventi del cielo e i rituali sacri e che anche i dipinti scoperti a Xultun potrebbero essere stati realizzati per scopi analoghi. Inoltre i ricercatori rilevano che ”nonostante la credenza popolare, non vi e’ alcun segno nei calendari Maya che il mondo finisca nel 2012 ma che termina solo uno dei cicli del calendario”. ”E’ come il contachilometri di una macchina, che si azzera e ricomincia da capo, cosi’ il calendario Maya termina e poi ricomincia da capo” precisa l’astronomo americano Anthony Aveni, della Colgate University. ”I simboli scritti dai Maya – conclude Saturno – riflettono una certa visione del mondo. I Maya predissero che il mondo sarebbe continuato, ossia che 7.000 anni da oggi, le cose sarebbero andate esattamente come ora”.


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